Dopo molti stop and go, la lunga giornata dell’Italicum a Montecitorio si è conclusa con l’affossamento degli emendamenti sulla parità di genere. Uno ad uno sono caduti tutti, da quello sull’alternanza di genere nelle liste a quello sul 50% dei capolista, fino alla soluzione di compromesso che prevedeva una quota di capolista per ciascun genere non superiore al 60%. Le deputate del Pd hanno lasciato l’aula in segno di protesta contro quei compagni di partito che hanno votato contro: almeno 40 i sì mancanti nell’ultimo voto. E la democratica Giuditta Pini non usa mezzi termini per maledire i compagni onorevoli: “che lo spirito di Lorena Bobbit accompagni stanotte i colleghi che hanno bocciato l’emendamento”, scrive in un tweet.
Ma la delusione è amara per tutte le 90 deputate (anche di Fi, Ncd, Sc, Udc e Pi) che hanno firmato nei giorni scorsi un appello ai leader dei propri partiti, scontrandosi con un fronte maschile trasversale più numeroso, compatto e inflessibile del loro. Ed è una dolorosa battuta d’arresto anche per il movimento di donne che, fuori dal Parlamento, ha lavorato per anni alla promozione della democrazia paritaria.
Decisivo è stato con ogni probabilità il voto segreto, ma il naufragio della parità era già annunciato dai tentennamenti di una parte del centrosinistra e dalla contrarietà di gruppi come Forza Italia e Movimento 5 Stelle. Per le posizioni dei pentastellati può valere la colorita dichiarazione anti-quote di Marta Grande: “Noi donne non siamo mica dei panda”. Le ragioni contrarie dei forzisti, nonostante le pressioni a favore degli emendamenti di colleghe di partito come Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo, vengono sintetizzate da Daniela Santanché: “Il presidente Berlusconi ha sempre creduto nelle donne e non c’è bisogno di una legge”.
Dunque eccoci qui. Ha vinto il fronte che alza la bandiera del “merito” e disprezza le “quote”. O altrimenti detto: ha vinto il fronte della conservazione di tradizionali diseguaglianze di potere contro quello che vorrebbe vedere realizzata la piena parità tra donne e uomini, anche nelle istituzioni elettive. Questione di punti di vista. Perché il fronte sconfitto, in fondo, difende un concetto semplice, che ha ben spiegato la democratica Anna Ascani nel suo intervento: “Correre i 400 metri è bello, ma se l’avversario parte 200 metri più avanti, il rischio di arrivare secondo è davvero tanto alto”.
Non di quote infatti si è mai trattato, nelle intenzioni delle firmatarie degli emendamenti: né riserve per panda, né strumenti che premiano il sesso biologico a discapito del merito. In gioco è invece l’applicazione dell’articolo 51 della nostra Costituzione secondo cui: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. Dunque perché i sospetti di incostituzionalità degli emendamenti sollevati da deputati contrari, come Piero Longo?
Il punto vero è che le norme per il riequilibrio di genere nella rappresentanza non vanno a detrimento della competenza e del merito (o casomai il problema sta a monte, in una legge elettorale con liste bloccate), ma vanno a sottrarre posizioni di potere agli uomini. Il paese, invece, può trarre solo vantaggio da una democrazia più compiuta. “La realtà è più forte delle opinioni”, ha ricordato Titti Di Salvo di Sel, e quando mancano meccanismi paritari il risultato è sotto gli occhi di tutte e tutti: zero donne nel consiglio regionale della Basilicata, 3 elette su 60 consiglieri in Sardegna.
Niente di fatto dunque, punto e a capo. Saranno contenti, forse, i tanti che in questi giorni hanno scritto che “il problema non è la parità di genere nella legge elettorale, è la legge elettorale”, e che la parità è “una foglia di fico su una legge inaccettabile”. In realtà qui non si tratta di un giudizio sull’Italicum. Le donne che hanno fatto questa battaglia hanno idee diverse in merito. Ma resta a tutte lo sconforto di vedere il Parlamento con la più elevata presenza femminile aggiungere questo macigno alla conta dei possibili difetti della legge: quello di arrestare la breve corsa delle donne dentro istituzioni capaci di dare voce alla metà del paese.
da Europa QUotidiano 11.03.14