Caro direttore, vengono pubblicati in questi giorni i risultati delle abilitazioni per ricoprire il ruolo di professore nell’università italiana. L’idea è rivoluzionaria: garantire una soglia di qualità minima per l’accesso alla carriera accademica. Si tratta di un corretto tentativo di modificare la deplorevole abitudine di selezionare docenti secondo criteri di appartenenza, basati non su meriti scientifici, ma su meriti altri. È difficile non sospettare che, in alcuni casi, l’uso di metodi in apparenza oggettivi possa costituire un mezzo per garantire, al riparo di una pretesa imparzialità, la persistenza di inveterate prassi clientelari. Decisioni basate su criteri di appartenenza altri saranno legittimate da esteriormente oggettive misure di merito. E un’università dominata da mediocri chiamerà mediocri, se non altro per incapacità di riconoscere l’eccellenza. Che l’accademia funzioni per cooptazione è del tutto appropriato in un ambiente corretto e dal forte controllo sociale. In Italia, l’anomalia è la definizione del criterio di appartenenza, dove il merito scientifico è secondario rispetto a quello altro, e l’impermeabilità del sistema a chi non appartiene a una scuola. Se nel Regno Unito un docente meritevole, per ragioni di esclusiva politica accademica, non dovesse essere selezionato in una certa università, ne troverà altre disponibili ad accoglierlo. In Italia le speranze di ottenere un posto al di fuori della sede controllata dalla propria scuola sono minime. Il risultato è sotto i nostri occhi: un’università la cui competitività internazionale è in caduta libera, con eccellenze isolate, senza capacità di attrarre talenti. I ricercatori all’estero non accettano proposte di rientro. Le recenti statistiche sui vincitori dei generosi consolidator grants dell’Erc sono eloquenti. Gli italiani, con 46 progetti finanziati, seguono i tedeschi (48) e precedono francesi (33) e inglesi (31), risultato notevole che conferma il valore dei nostri ricercatori. Tuttavia, gli italiani sono di gran lunga i più numerosi nel decidere di usare il proprio finanziamento all’estero. Le soluzioni a questi problemi sono ovvie, ma si scontrano con interessi consolidati. Non esiste, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, un’abilitazione nazionale. Le migliori università del mondo non usano criteri quantitativi per assegnare una cattedra. Perché dovrebbe Oxford applicare criteri imposti dall’alto per selezionare i suoi docenti? Tuttavia, queste università sono soggette, con modalità diverse, ad una severissima valutazione ex postdella loro attività di ricerca, soprattutto a livello internazionale. Il valore della ricerca prodotta e la loro reputazione gli permettono di attrarre studenti, finanziamenti e donazioni. La crisi finanziaria ha mostrato che regole, incentivi e finti meccanismi di mercato falliscono. Anche in ambito accademico basterebbe soltanto che ciascuno facesse il proprio lavoro, seriamente e con coscienza della sua ricaduta sociale. Un’utopia, secondo il funzionario della Banca d’Italia che nel film Un eroe borghese dice a Giorgio Ambrosoli che ha ormai capito di essere stato lasciato solo: «Lei ha fatto un lavoro ineccepibile, e questo non glielo perdonerà mai nessuno». In Italia fare il proprio dovere è un peccato mortale.
*Iannetti è docente di Human neuroscience presso University College London, Quattrone è titolare della cattedra di Accounting, governance and social innovation presso l’Università di Edimburgo
da repubblica.it