Alla base della crescita dei sistemi educativi c’è l’attesa del beneficio che può derivarne ai singoli e alle società nazionali. Può trattarsi di un beneficio morale (com’è stato per la promozione dell’alfabetismo conseguente alla riforma religiosa di Lutero), di carattere materiale (come risposta funzionale al bisogno di disporre di forza lavoro qualificata nelle società in fase di trasformazione produttiva) o, in molti casi, diun misto di benefici morali e materiali, com’è avvenuto in Italia dopo il raggiungimento dell’unità nazionale. Quel che è certo è che, se chi fruisce di educazione non collega al suo impegno qualche tipo di beneficio, non tarda a manifestarsi una caduta di motivazione, che finisce con lo sfociare in uno stato di crisi. Il malessere che attraversa la maggior parte dei sistemi educativi dei Paesi europei (o, comunque di cultura europea, anche se in altre aree geografiche) è in larga misura una conseguenza dell’esaurirsi delle dinamiche che avevano consentito l’espansione, non sostituite da altri fattori motivanti ugualmente carichi di implicazioni per le condizioni di esistenza individuali e per quelle sociali. Di fronte all’incalzare di segnali della difficoltà in cui si sono venuti a trovare i sistemi educativi, ci si è per lo più accontentati di rilevare i sintomi del malessere, senza chiedersi quali ne fossero le ragioni. Sono state accolte interpretazioni della crisi centrate sulla relazione lineare che si è stati in grado di stabilire tra un numero modesto di variabili. Ne è derivato che a bassi livelli di apprendimento da parte degli allievi (variabili dipendenti) si siano fatti corrispondere valori inadeguati di variabili indipendenti,come il corredo professionale degli insegnanti, l’organizzazione delle scuole o il tipo di dotazioni disponibili per la didattica. In altre parole, si è affermato un meccanicismo interpretativo poco disponibile a considerare i fattori di sistema della crisi educativa, che si è preteso di affrontare sulla base di logiche produttivistiche di derivazione aziendale. Ciò non significa negare che anche aspetti critici come quelli menzionati, relativi al personale, all’organizzazione delle scuole e alle dotazioni didattiche, concorrano a complicare il quadro del sistema educativo, ma che se gli interventi si limitassero a introdurre modifiche settoriali potremmo avere effetti contingenti di miglioramento, che però non consentirebbero di uscire dalla crisi. Nelle attuali condizioni di crisi non si può continuare a intervenire sull’educazione scolastica come si sarebbe fatto in periodi di crescita del sistema. Né ha senso continuare a porre l’enfasi sui risultati delle comparazioni internazionali, quando da un lato, in Italia, abbiamo un servizio asfittico, assicurato da insegnanti mortificati nel loro profilo di intellettuali e professionisti, e dall’altro sistemi nei quali le scuole non sono più solo strutture per la trasmissione di una cultura sistematica, ma istituzioni capaci di orientare e sostenere nell’arco della giornata una parte consistente dell’attività di bambini e ragazzi. In altre parole, per uscire dalla crisi occorre ricollocare la funzione della scuola nella società, prendere atto dei cambiamenti intervenuti nella composizione delle famiglie, porsi il problema di assicurare un’educazione che possa fungere da riferimento nell’età adulta, costituire condizioni favorevoli ai successivi adattamenti che comporterà la partecipazione alla vita sociale negli almeno sei decenni tre in più nel corso di un secolo che al momento costituiscono la durata della speranza di vita successiva al paio di decenni dell’adattamento iniziale. Nel ripensare l’attività delle scuole sarà necessario un cambiamento drastico dei criteri valutativi. Il limite di gran parte delle prese di posizione, dall’interno e dall’esterno del sistema educativo, che si sono avute negli ultimi mesi è consistito nel considerare il problema da un punto di vista tutto interno alle scuole. Alla base degli orientamenti espressi c’era l’dea che l’attività delle scuole, e quindi i risultati conseguiti dagli allievi, potesse essere considerata prescindendo da ciò che accade intorno alle scuole, determinando il complesso delle interazioni che ha conseguenze sul profilo cognitivo, affettivo e di relazione degli allievi. Qualcosa del genere poteva affermarsi fino a qualche decennio fa, ma ha sempre meno senso nelle condizioni attuali di vita, soprattutto in Italia dove, per i limiti già rilevati del servizio assicurato dalle scuole, i risultati dell’educazione scolastica appaiono sempre più dipendenti dal condizionamento sociale. La scuola si trova a contrastare sia l’azione delle famiglie, sia quella di fonti di conoscenza e di trasmissione valoriale che non sempre sembrano convergere sui medesimi obiettivi. I messaggi che gli allievi ricevono dall’esterno della scuola si distinguono generalmente per una finalizzazione contingente, mentre la qualità dell’educazione scolastica dipende in massima parte dalla sua persistenza nel tempo. Ne deriva che la valutazione ha senso se non si limita a rilevare, hinc et nunc, il possesso di un certo corredo conoscitivo, ma è in grado di spiegare quanta parte della varianza che si osserva fra gli allievi possa essere riferita a fattori interni o esterni e, fra questi ultimi, a fattori prossimi (come la famiglia o il contesto di vita) o remoti (tali sono i messaggi trasferiti tramite i mezzi perla comunicazione sociale). Occorre identificare indicatori sensibili dell’incidenza dei diversi fattori, per essere in grado di comporre modelli interpretativi che siano preliminari alla definizione di piani di intervento.
L’Unità 10.03.14