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"Le macerie degli imperi", di Timothy Garton Ash

Gli avvenimenti in Ucraina possono essere interpretati anche in maniera diversa: come l’ultima tappa della autodecolonizzazione d’Europa. Dopo la demolizione dell’impero sovietico gli europei hanno portato a termine l’opera già iniziata di smantellamento degli imperi austro-ungarico e ottomano.
Compresi gli stati successori, come la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Ora è la volta dell’impero russo pre-sovietico. Pensate al presidente russo come a Vladimir, l’ultimo zar.
Smantellare gli imperi è un bel problema. Non sono mica fatti col Lego, smontabili in blocchetti compatti, uno rosso qui uno giallo là. Su che base si decide quale gruppo di individui su quale pezzo di terra diventerà uno stato? Senza dubbio le affinità culturali, linguistiche, etniche e storiche hanno un peso. Come lo hanno i retaggi di accordi diplomatici internazionali da tempo dimenticati e le divisioni interne ad un impero o ad uno stato successore multietnico. Importantissime sono la volontà politica e la leadership sul territorio. Forse più importante di tutto è la sorte storica, quella “fortuna” che Machiavelli definisce “arbitra della metà delle azioni nostre”. È stato un misto di storia, volontà, abilità e sorte che ha portato al Kosovo la sua indipendenza, tuttora non universalmente riconosciuta.
Quest’idea circa lo smantellamento dei vecchi imperi mi colse qualche anno fa visitando il parastato separatista di Transnistria, all’estremità orientale della Moldavia, accanto all’Ucraina. A Tiraspol, la capitale, strana città dallo stile retrò sovietico, mi imbattei in un’imponente statua equestre del feldmaresciallo Alexander Suvorov, celebrato come fondatore della città alla fine del diciottesimo secolo. In precedenza, a Uzhhorod, città sul confine occidentale dell’Ucraina con la Slovacchia, avevo avuto occasione di incontrare il sedicente governo provvisorio della Rus sub-carpatica, o Rutenia, per praticità. Il primo ministro era un professore medico che mi ricevette cortesemente in un piccolo studio dell’ospedale locale. Il ministro degli esteri era arrivato in macchina dalla sua casa in Slovacchia. Il ministro della giustizia preparò il tè. Riuscii quasi a persuaderli a cantare l’inno nazionale che inizia così: “Russi dei sub Carpazi, svegliatevi dal sonno profondo”. Da ridere, direte voi. Operetta! Ma poi la fortuna fa girare il caleidoscopio della storia e ad un tratto appare un paese riconosciuto a livello internazionale chiamato, che so, Moldavia o Montenegro. I suoi figli e le sue figlie cedendo al potere normativo del dato di fatto e fuorviati sui banchi di scuola dai libri di storia nazionalisti crescono dando per scontata la realtà di stato nazione.
Poi però, eversivamente, le frontiere dei vecchi imperi riemergono sulle mappe elettorali delle nuove democrazie, quasi fossero tracciate in inchiostro invisibile. Usiamo i colori per mappare il voto di maggioranza espresso per i partiti e i candidati alla presidenza in quelli che erano nell’Ottocento i territori dei grandi imperi. Per gli ex appartenenti all’impero austro-ungarico e tedesco il colore è l’arancione, per quelli dell’impero russo o ottomano il blu. In Ucraina, Romania e Polonia i partiti e i colori variano, ma il fenomeno è lo stesso.
I liberali sono bravi a enunciare principi universali a favore della pari sovranità e l’autodeterminazione dei singoli individui. Entrano totalmente in crisi quando si
tratta di popoli. Perché i kosovari dovrebbero aver diritto all’autodeterminazione e i curdi no? Perché se vale per la Scozia non vale per la Catalogna? E se vale per la Catalogna perché non per la Padania? Con l’indebolirsi degli imperi e degli stati multinazionali sale il grido “perché noi dobbiamo essere una minoranza nel vostro stato quando voi potreste essere una minoranza nel nostro?” (mutuo la geniale formulazione dell’economista macedone Vladimir Gligorov). Oppure, come ha detto recentemente a titolo di provocazione il nazionalista russo Vladimir Zhirinovsky, se l’Ucraina può fare la sua rivoluzione perché la Crimea no?
Come i lettori ormai hanno appreso dai giornali la Crimea venne donata alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina per ordine di Nikita Krusciov 60 anni fa, nel febbraio 1954, in occasione del tricentenario del trattato di Perejaslav, che i propagandisti sovietici reinterpretarono come segno della “riunificazione dell’Ucraina con la Russia”. Nikolai Podgorny, comunista dell’Ucraina sovietica, definì la decisione di Krusciov come “ulteriore affermazione del grande amore fraterno e della fiducia nutriti dal popolo russo per l’Ucraina”. Oh, oh. Anche se Krusciov non fosse stato sbronzo quando decise, come talvolta viene malignamente insinuato, certo nella sua scelta non ci fu nulla di inevitabile né di “naturale” sotto il profilo storico, o , se è per questo, di “innaturale”. Se non fosse accaduto, la Crimea oggi farebbe parte della Federazione Russa con un’ampia maggioranza di Tartari e Ucraini di Crimea che si lamenterebbero all’insegna del “perché noi dobbiamo essere una minoranza nel vostro paese quando voi potreste essere una minoranza nel nostro”. Ma è accaduto, e la rabbia sale alla rovescia.
Non c’è necessità storica in questi esiti, né giustizia universale, ma da più di un secolo di autodecolonizzazione europea dovremmo imparare due cose. Innanzitutto che dal momento in cui un popolo ha uno stato tendenzialmente non vuole rinunciarvi. Un amico macedone subito dopo l’indipendenza del suo paese dalla ex Jugoslavia mi disse: «Sai, credo che la Macedonia non dovesse diventare necessariamente uno stato indipendente, ma ora che lo è mi piace così». Non a caso il numero degli stati dell’Onu continua a crescere, non a diminuire. Dietro le quinte sono in attesa i membri dell’Unpo, l’Organizzazione della nazioni e dei popoli non rappresentati, tra cui i Tartari di Crimea.
Ancor più importante è la seconda lezione. Come ribadiva il grande antimperialista Mahatma Gandhi, tra mezzi e fini non esiste una netta distinzione. La violenza genera violenza. Le modalità non sono soltanto importanti quanto l’azione; in realtà determinano l’esito finale. Un divorzio di velluto, come in Cecoslovacchia, porta ad una situazione diversa rispetto al divorzio sanguinoso. Lo stesso vale per una convivenza pacifica e volontaria (Scozia e Inghilterra forse?) rispetto ad una forzosa. L’uso della forza porta sempre conseguenze indesiderate. Lo Zar Vladimir può riconquistare il dominio sulla Crimea, ma la sua azione andrà infine a rinforzo dell’indipendenza dell’Ucraina.
Traduzione di Emilia Benghi

La Repubblica 10.03.14