Dieci milioni di poveri. Altrettanti che vivono una situazione finanziaria che li porta ogni giorno a cercare di restare disperatamente aggrappati al ciglio di un piano inclinato che li spinge sempre più verso il baratro. È l’esercito dei disperati, di cui fanno parte, fra effettivi e riservisti, quasi 20 milioni di italiani. Un terzo della popolazione alle prese con debiti cui non riesce a far fronte, bollette da pagare e una quotidianità che ha alleggerito di molto il carrello della spesa. Dall’inizio della crisi, gli italiani diventati poveri sono più di 2 milioni, due terzi dei quali lo sono diventati negli ultimi due anni grazie alle politiche «lacrime e sangue». Non è difficile capire chi abbia versato sia le lacrime che il sangue, visto che i numeri sono spietati: il 10 per cento di quello che fu il nostro ceto medio, fatto di dirigenti, famiglie di impiegati con doppio reddito, commercianti e piccoli imprenditori, è scivolato verso la povertà. Poveri e «quasi poveri» che un tempo costituivano le fasce muscolari di un Paese che improvvisamente si è scoperto debole, ripiegato su stesso, indifeso contro quella che si sta rivelando la più terribile tra le epidemie del nostro tempo: la povertà.
D’altronde, diventare poveri è facile: basta una malattia improvvisa, la perdita del lavoro, un investimento andato male e in un attimo ci si sveglia in un incubo, soli, senza alcuna strada che permetta di uscire dalla disperazione. O che possa alleviare la sensazione di sentirsi soffocati e oppressi. Una sensazione che avvolge e svuota l’anima di quello spirito che ci distingue da tutti gli altri esseri viventi: la speranza. Senza alcuna attesa di riscatto e di ritorno a una vita dignitosa, perché la povertà non è una condanna a termine, ma spesso è «per sempre». Nessun condono, nessuna ultima chiamata. Solo l’assoluta certezza che nessuno aiuterà a rialzarsi da terra chi ha perso il lavoro, chi ha abbassato la serranda del negozio per l’ultima volta, chi ha visto mettere la propria casa all’asta. Non certo le istituzioni, viste ormai come un nemico che si accanisce e che, di volta in volta, assume le sembianze di una cartella esattoriale, di un ufficiale giudiziario, di un ispettore di un qualche ufficio pubblico. Non le banche, supine con i forti e spietate con i deboli, perché c’è sempre qualche occhio da chiudere con il potente di turno, ma una norma inflessibile da rispettare quando c’è da prorogare un prestito a un pensionato o a un piccolo imprenditore in difficoltà. Dalla parte dei deboli e degli ultimi c’è solo il conforto di associazioni che fanno del loro meglio per offrire un piatto caldo e qualche volta un tetto per un «breve periodo di tempo», provvisorio come la vita di chi prima aveva molto e ora non ha più nulla.
Fa impressione vedere alle mense della Caritas persone provenienti da classi sociali assai diverse, che mai forse si sono incontrate e mai si sarebbero trovate insieme se la crisi di cui sono vittime non le avesse costrette a condividere, oggi, la stessa condizione di degradazione personale e sociale. Stupisce che la protesta dignitosa che ogni tanto squarcia gli andamenti dei mercati finanziari e dello spread, sia prevalentemente formata da chi, solo fino a qualche anno fa, poteva vantare stili di vita e livelli di benessere superiori alla media, e che oggi si trova alle prese con strategie di sopravvivenza quotidiana. Persino la tradizionale corrispondenza tra collocazione sociale e comportamento politico non ha più il senso che aveva fino a prima della crisi. Un tempo bastava conoscere il mestiere che uno svolgeva per capire quale partito avrebbe votato. Oggi aggrega soprattutto l’insicurezza, la rabbia, il rancore, insieme a un sentimento di dilagante ineluttabilità che riguarda anche quanti hanno
fortuna di avere un lavoro: se va bene l’attesa è di limitare i danni con un taglio al potere d’acquisto, ma se va male, il posto di lavoro non ci sarà più. Uno sconforto collettivo di fronte al permanere dei pericoli di un ulteriore generale decadimento economico del Paese.
La crisi che ha colpito l’Italia – come spiega Bonomi nel suo ultimo libro “Il capitalismo in-finito” – ha causato la «desertificazione» di intere aree produttive improntate al fordismo e al post-fordismo. Non a caso, le proteste più imponenti, negli ultimi mesi, sono esplose dove sono terminati lunghi cicli economici positivi: in Piemonte e Liguria, due regioni un tempo autenticamente fordiste e nel Nordest con le sue micro-imprese ormai al collasso. E dopo anni d’impoverimento non può sorprendere che esploda la rabbia tra i piccoli imprenditori di quel capitalismo molecolare nato dopo gli anni Settanta, tra i commercianti, tra gli impiegati, tra gli insegnanti. Una piccola borghesia stressata dal fisco e impoverita dalla crisi, che è difficile trovare alle porte dei sindacati o delle associazioni di categoria, ma che è facile intercettare alla mensa della Caritas. Un luogo dove naturalmente arrivano disoccupati e cassintegrati, ma anche appartenenti alla classe dei «non più»: non più negozianti, non più impiegati, non più piccoli imprenditori. Negli ultimi 5 anni, enormi ricchezze sono scomparse dai radar dell’economia reale e dalle disponibilità del ceto medio produttivo. Oltre 2mila miliardi di euro che hanno preso la strada dell’economia sommersa e illegale, della finanza e dei paradisi fiscali.
Nonostante tanti provino a uscire dalla palude e a inventarsi cose nuove, il declino continua e pare inarrestabile. Anche perché paghiamo il prezzo di una classe politica inadeguata e di una classe dirigente ancor più mediocre, emanazione diretta della prima. Una classe dirigente che gestisce i centri di potere (banche, società pubbliche e partecipate, ministeri, regioni), preoccupata, innanzitutto, di salvaguardare le rendite di posizione. E che usa «annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi» (Censis), pur avendo dimostrato di esse- re del tutto incapace di dare una spinta propulsiva per uscire dal deterioramento economico, scientifico, culturale, sociale.
Ora più che mai c’è bisogno di una politica che metta in agenda la soluzione a questi problemi, perché il tempo è scaduto e non è possibile occuparsi dell’economia del «non ancora» senza risolvere prima, concretamente, il problema di chi «non è più».
L’Unità 10.03.14