Abbiamo due articoli della Costituzione, il 3 (sull’uguaglianza) e il 51 (sulla promozione delle pari opportunità) e metà della nostra popolazione è costituita da donne, eppure vi è il fondato sospetto che la nuova legge elettorale voglia dare un’interpretazione riduttiva della parità di genere: questo è il senso delle dichiarazioni fatte dalla presidente della Camera Laura Boldrini e da numerose parlamentari di tutti gli schieramenti politici. La preoccupazione è legittima e pertiene al diritto di equa rappresentanza, un diritto che le liste bloccate senza norme che regolino il criterio di collocazione nella lista fatalmente violerebbero.
Nel diritto di parità di genere si riflette il diritto di eguale partecipazione alla rappresentanza: non è un diritto “per” le donne e non è una concessione alle richieste delle donne. La rivendicazione della parità non è una rivendicazione di rappresentanza corporativa. È, al contrario, l’attuazione coerente di una visione della democrazia nella quale tutti i cittadini e tutte le cittadine debbano potere godere di uno stesso diritto di contare ed essere contati, di votare ed avere un’eguale opportunità di essere eletti, senza strategie truffaldine che vanifichino il principio mentre lo proclamano. La causa femminile è dunque una causa generale di cittadinanza. Mette in evidenza una lacuna di questa proposta di legge, la quale mostra di avere troppe evidenti resistenze nell’accettare il principio di giusta rappresentanza: per una soglia di sbarramento troppo alta; per la premiazione eccessiva di chi guadagna una maggioranza relativa; e per il piano di favorire l’eleggibilità dei cittadini di sesso maschile più di quella dei cittadini di sesso femminile. Una proposta, insomma, che è sporporzionata verso una parte: verso chi è più forte e chi è meglio posizionato.
Perché la sottorappresentanza di genere è un problema? E perché avere donne nelle istituzioni rappresentative è importante? Negli ultimi decenni, queste due questioni hanno intersecato il tema della giustizia politica e messo in discussione la qualità della democrazia nelle società europee, che con poche eccezioni (i paesi scandinavi) sono ancora troppo sproporzionatamente maschili. Si tratta di una discrepanza che pesa ancora di più se si pensa alla presenza fondamentale delle donne in tutti i settori della vita sociale ed economica. Ma non è questa la ragione che dà forza alla richiesta di giusta rappresentanza: perché il diritto di voto nelle democrazie non viene dal contributo delle persone alla vita collettiva, ma dal loro fatto di esistere come cittadini; i diritti politici sono diritti fondamentali, come lo è quello di voto e di opportunità di essere eletti.
Anne Phillips, che lottò nel partito labourista di Tony Blair per conquistare quote di genere nel suo partito, ha alcuni anni fa esaminato le buone ragioni per le quali le democrazie devono accrescere il numero delle donne in lista. Il riequilibrio di genere giustifica anche la temporanea violazione dell’eguaglianza cieca. L’articolo 51 della nostra Costituzione chiede al legislatore di “promuovere” con “appositi provvedimenti” le pari opportunità perché, evidentemente, queste non si affermano da sole. Per questo, diversi paesi hanno adottato quote; altri, come la Francia, hanno cercato di andare oltre le quote e affermato il criterio della parità di donne in lista (usando l’incentivo economico per indurre i partiti ad adottarlo); altri infine hanno scelto la strada della rappresentanza proporzionale (con basse soglie di sbarramento) per correggere la sottorappresentanza delle donne.
Queste diverse strategie riflettono il riconoscimento che la rappresentanza è un valore e una forma di partecipazione. La ricerca di ridisegnare o correggere strategie di rappresentanza è un fatto di indubbia rilevanza che testimonia il mutamento degli stessi movimenti femminili verso la rappresentanza politica, vista non più come un ripiego rispetto a una più genuina partecipazione. La comprensione del valore del suffragio e della rappresentanza hanno marciato insieme: non godere di una eguale possibilità di essere elette è una forma di decurtamento del diritto politico.
Queste riflessioni seguono due fenomeni correlati che pertengono ai mutamenti della democrazia nei paesi europei: la richiesta delle donne di essere egualmente rappresentate ha marciato in parallelo alla crisi dei partiti di massa e al declino della fiducia dei cittadini nei partiti. La crisi dei partiti ha reso le donne meno rappresentate e ha reso più forte la necessità di far sentire la loro voce direttamente, con la loro presenza. Quindi la parità è oggi più che mai un’esigenza di giustizia, proprio perché la rappresentanza non può contare più solo sulle piattaforme generali dei partiti nelle quali le donne possano riconoscersi. Presenza e voce stanno insieme ora più di quanto non succedesse nell’età dei partiti di massa. Pertanto, la resistenza nel nostro Parlamento verso la pari opportunità delle donne di essere elette ci induce a rivolgere ai rappresentanti uomini la seguente domanda: come spiegate all’opinione pubblica che volete i voti delle donne ma non volete dare loro la stessa opportunità di essere elette?
La Repubblica 09.03.14