«Cari uomini, questo otto marzo parla a voi perché a voi, ora, tocca fare un passo. Per non lasciare indietro l’Italia» ha scritto ieri Sara Ventroni sull’Unità. Ha ragione. Come ha ragione il presidente della Camera Laura Boldrini quando ricorda semplicemente che le donne sono la metà del Paese. È anche solo questo dato che dovrebbe riflettersi nella rappresentanza politica. È bene che siano gli uomini – impegnati in politica e non – a porsi con serietà e concretezza il tema, perché non si riduca all’ennesima mostra di buone intenzioni o a uno sventolio perfino un po’ retorico di mimose.
Sono a Catania, le strade del centro sono affollate di banchetti che vendono i fiori dell’Otto marzo. Capito, per caso, al Palazzo della Cultura alla presentazione di un libro. Si intitola «Quello che resta. Storia di Stefania Noce», l’ha scritto una giovane giornalista, Serena Maiorana ed è stato pubblicato da un editore piccolo e vivace, Villaggio Maori. C’è molta gente ad ascoltare, ma sono soprattutto donne: come sempre quando si parla di libri, come sempre se si parla di femminicidio. Gli uomini dove sono? Questa storia di violenza omicida contro le donne colpisce, se possibile, ancora più del solito perché riguarda una ragazza che si era impegnata in prima persona sul tema. Una giovane militante di sinistra che lottava per i diritti delle donne, divenuta vittima della stessa forma di violenza che denunciava. Stefania difendeva il femminismo, cercava di spiegare che non era l’estremo opposto del maschilismo, cercava nei gesti della sua militanza generosa di saldare un debito, un conto ancora aperto con le donne protagoniste delle grandi battaglie di quarant’anni fa. Stefania contestava la dittatura mediatica del «patriarcato», le immagini che ne derivano e schiacciano il corpo della donna sulla dimensione più prevedibile e spesso volgare. Contestava, in un suo scritto, la logica dura a morire che porta a pensare, di fronte a una violenza, a uno stupro, «sarà stata anche un po’ colpa sua». Scriveva testualmente: «Uno Stato si racconta attraverso le sue leggi, attraverso i suoi luoghi simbolici e di potere. Il nostro Stato racconta quasi di soli uomini e non racconta dunque la verità. Da nessuna parte viene nominata la presenza femminile come necessaria e questo, probabilmente, è l’effetto di una falsa buona idea: le donne e gli uomini sono uguali, per cui è perfettamente indifferente che a governare sia un uomo o una donna. Ecco il perché di un’eclatante assenza delle donne nei luoghi di potere».
Uguali, diceva Stefania, ma nel senso sbagliato. Dobbiamo trovare il modo di pensare a un’uguaglianza carica delle differenze dei corpi – aggiungeva – ma che uguaglianza sia davvero, tenendo presente l’orizzonte dei diritti universali. Siamo nel 2014, Stefania scriveva queste parole nel 2005 e la storia diversa che immaginava deve ancora essere scritta. Stefania oggi avrebbe 27 anni, ma è stata uccisa il 27 dicembre 2011 con dieci coltellate, in un piccolo paese della Sicilia di tremila abitanti. A ucciderla è stato l’uomo che diceva di amarla, ma che nei quattro anni di relazione l’aveva tante volte messa in difficoltà, con crisi di rabbia e di gelosia. Lei aveva perciò deciso di lasciarlo. Lui non ha accettato quel no. L’ennesima storia così – racconta la giornalista che ha ricostruito la storia di Stefania Noce – dimostra come in Italia non siano molti i ruoli previsti per le donne. Mamma, moglie, oppure troia.
Agli occhi di Loris, Stefania era diventata questo. Ma il suo era lo sguardo incattivito, ingiusto e violento di un uomo che vedeva la «propria» ragazza, appunto, come una proprietà. Penso a questa storia e penso all’articolo di Sara Ventroni. Penso che sì, mi chiama in causa. Come uomo di trent’anni che sarà marito e forse padre. Vorrei contribuire al passo pubblico che Ventroni ci chiede. Ma vorrei contribuire anche a un passo privato che non è soltanto privato, e – se sarò padre – essere capace di dire a mio figlio, come lo dico a me stesso, che può liberarsi dai retaggi inconsapevoli di una cultura anti-storica e carica di pregiudizi e di violenza anche solo mentale, quindi di una non-cultura. Di quel «maschilismo» ottuso che potrebbe portarlo, senza farci caso, a essere l’uomo-padrone, l’uomo intollerante che alza la voce e le mani, l’uomo che nasconde dietro la gelosia la sua ansia di possesso, l’uomo che parla delle donne come fotografie di un calendario erotico, l’uomo che sventola le mimose ma – da cittadino, da politico, o da qualunque cosa sia – lo fa per nascondere la coscienza sporca.
L’Unità 09.03.14