L’Italia calpesta la vita delle donne. Altro che mimose. In questo amaro otto marzo che racconta un paese senza parità e senza lavoro, assediato dai femminicidi e dalla piaga delle dimissioni in bianco, un duro documento del Consiglio d’Europa condanna il nostro paese per aver violato la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Con un provvedimento che sarà reso pubblico oggi, il “Comitato europeo dei diritti sociali”, organismo del Consiglio d’Europa, afferma: «A causa dell’elevato e crescente numero di medici obiettori di coscienza, l’Italia viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla legge 194 del 1978, intendono interrompere la gravidanza».
È la prima volta che l’Europa condanna con tanta chiarezza il nostro paese per la disapplicazione della legge sull’aborto, riconoscendo, finalmente, che pur esistendo ancora sulla carta, l’interruzione volontaria di gravidanza è di fatto ormai impossibile in intere regioni d’Italia. Le donne sono costrette a migrare di provincia in provincia perché centinaia di ospedali hanno ormai chiuso i reparti, ma in tante, troppe, respinte dalle strutture, e ormai fuori dai tempi consentiti per l’interruzione di gravidanza, si rivolgono,
come 40 anni fa, al fiorente mercato degli aborti clandestini. Le cui stime oggi sfiorano i 40-50mila interventi l’anno.
Il documento europeo che condanna l’Italia è il frutto di una lunga battaglia portata avanti dall’Ippf, (International Planned Parenthood Federation European Network), insieme all’italiana Laiga, associazione di ginecologi per l’applicazione della legge 194. Un “reclamo collettivo” (il numero 87 depositato l’8 agosto 2012), oggi diventato un pesante monito contro il nostro paese. E le conseguenze più immediate, esattamente come è avvenuto per la legge 40 sulla fecondazione assistita, sarà la possibilità per le donne e le associazioni usare il documento europeo per denunciare e iniziare azioni legali contro gli ospedali che non garantiscono il servizio di interruzione di gravidanza. Nell’attesa che finalmente il ministero della Sanità si decida a far applicare la legge 194, ormai resa nulla dallo spropositato numero di ginecologi obiettori di coscienza, che in alcune regioni superano il 90% del personale sanitario.
«Questa vittoria è un successo importante perché l’obiezione di coscienza non é un problema solo in Italia ma in molti altri paesi europei», commenta Vicky Claeys, direttore regionale dell’Ippf, ricordando forse la drammatica situazione della Spagna. «La nostra istituzione, che da 60 anni lotta nel mondo per garantire a tutte le donne i loro diritti, e l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva, vuol fare emergere la mancanza di misure adeguate da parte dello Stato italiano nel garantire il diritto fondamentale alla salute, e all’autodeterminazione femminile». Ed è soddisfatta Silvana Agatone, presidente della Laiga, ginecologa, da sempre in prima linea nella difesa della legge 194, e che da anni denuncia lo smantellamento dei reparti di “Ivg” negli ospedali italiani, e soprattutto il calvario delle donne. «Questo risultato è il frutto di anni di lavoro della Laiga che fornendo dati fondamentali sulla non applicazione della legge 194, ha avviato il percorso verso la condanna dell’Italia». E riallaccia
il suo pensiero a questo contraddittorio 8 marzo, la costituzionalista Marilisa D’Amico, che insieme ad un’altra avvocata, Benedetta Liberali, ha lavorato a lungo sul “reclamo” presentato dall’Italia. «Come donna e ancor prima che come avvocato — ha detto D’Amico, cui si devono già grandi battaglie legali contro la legge 40 — sono felice che sia stato ribadito un diritto fondamentale sancito dallo Stato italiano. Oggi è la giornata della donna, e suona quasi beffardo che a trent’anni dall’approvazione della legge 194, si debba ancora combattere per affermare un diritto per noi donne definito costituzionalmente irrinunciabile. Spero che adesso si prendano i provvedimenti necessari per applicare la legge in tutte le strutture nazionali ».
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“Non rinunciate ai vostri sogni la parità deve diventare la regola”
Elena Cattaneo, esperta di staminali e senatrice a vita
«La parità? Dovrebbe essere la normalità». Elena Cattaneo è una scienziata di fama internazionale, direttore del Centro di ricerca sulle cellule staminali UniStem dell’Università di Milano, terza donna nominata senatore a vita nella storia della Repubblica. Alla politica, allo Stato, chiede di mantenere alta la guardia sui temi eticamente sensibili, dall’aborto alla procreazione assistita, «altrimenti sui diritti si rischia di fare un passo avanti e tre indietro». E dà un consiglio alle giovani: «Non vivete di stereotipi, avere marito e figli non significa dover rinunciare ai sogni».
Senatrice, anche nel mondo scientifico le donne devono dimostrare di essere meglio degli uomini per poter aspirare a dei riconoscimenti?
«Se guardo alle esperienze di tanti colleghi dico che è proprio così, ma non lo è stato nella mia storia personale. Forse ho subito delle discriminazioni e non me ne sono accorta o forse non l’ho permesso. È così naturale non consentire a nessuno di recintarti in quanto donna. Resta il fatto che anche in campo scientifico le posizioni apicali sono occupate soprattutto da uomini. È così in medicina, forse meno in biologia».
Lei è cattolica, ma è anche stata tra i promotori del referendum contro la legge 40 sulla procreazione assistita. Come vive la conflittualità tra alcune posizioni della Chiesa e la difesa dei diritti delle donne?
«Io cattolica? Penso di esserlo. Il problema della legge 40 è che con un escamotage etico si vietava la produzione in Italia di cellule staminali embrionali, autorizzando però la ricerca su quelle provenienti dall’estero. E c’erano norme che andavano contro la tutela della salute femminile, per escludendo la diagnosi preimpianto. Per fortuna questa legge è stata smantellata da numerose sentenze e ora si tratta di capire come andare avanti. Io però non credo che ci sia una contrapposizione tra religione e scienza, religione e diritti delle donne. È vero invece che c’è una dimensione politica della religione, che esistono alcune posizioni della Chiesa che hanno inciso, eccome, sulla libertà dell’individuo. Ma forse ora, anche grazie a Papa Francesco, stiamo assistendo ad una svolta».
Tuttavia la legge sull’aborto è ancora sotto attacco. Soprattutto attraverso un ricorso massiccio all’obiezione di coscienza da parte dei medici. Che ne pensa?
«Che le donne devono poter vedere rispettati i loro diritti e che lo Stato ha il dovere di tutelarli. Altrimenti facciamo un passo avanti e tre indietro».
Dall’agosto scorso lei è senatrice. E oggi proprio in Parlamento e proprio a ridosso dell’8 marzo è scoppiata una guerra trasversale sulla parità di genere nelle liste elettorali. Lei condivide la battaglia di molte sue colleghe per il fifty-fifty?
«La parità è la rivendicazione di una condizione che dovrebbe essere normale, che dovrebbe partire dall’educazione, a scuola e in famiglia e poi svilupparsi sul lavoro e certo anche in Parlamento. Molte cose però abbiamo dovuto conquistarle e altre restano da conquistare. È un fatto importante, ad esempio, avere per la prima volta un governo composto per la metà di donne, ma è altrettanto fondamentale che le donne arrivino a posizioni di vertice per le loro qualità. Per farlo però è necessario che siano garantite pari opportunità ».
Lei è sposata, ha due figli e una carriera molto impegnativa svolta in parte all’estero. Come ha fatto a conciliare tutto?
«Consiglierei alle giovani di non adagiarsi sugli stereotipi. Avere una famiglia non significa rinunciare ai propri sogni. Certe cornici sembrano rassicuranti, ma possono rivelarsi una prigione, una fregatura auto inflitta. La prima mossa è scegliere accuratamente la persona con cui condividere la propria vita. A me il miracolo è riuscito, forse perché non ho mai consentito al lavoro di escludere la mia famiglia, e non ho mai permesso alla famiglia di escludere la mia professione».
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Lucrezia Reichlin è docente di economia alla London business school
“Non dimentichiamoci questa festa ci ha insegnato ad avere coraggio”
È la donna che in questi mesi tutti volevano: la Banca d’Inghilterra come vice-governatore secondo il
Financial Times, Matteo Renzi come ministro dell’Economia secondo le indiscrezioni italiane. Invece per ora è rimasta al suo posto di docente della London Business School, una delle università più prestigiose del mondo, ultimo gradino di una carriera iniziata con un dottorato alla New York University e proseguita tra l’altro come direttore generale alla ricerca della Banca Centrale Europea. Figlia di Alfredo Reichlin, a lungo deputato del Pci, e di Luciana Castellina, fondatrice del Manifesto, Lucrezia Reichlin parla con Repubblica dell’8 marzo al termine di una giornata in cui ha fatto sei ore di lezione e due riunioni.
Che significato ha per lei la festa della donna?
«L’8 marzo è una festa importante per me. Quando ero piccola mia madre lavorava all’Unione Donne Italiane e ricordo bene la festa e le mimose. Si cantava “sebben che siamo donne paura non abbiamo”. In fondo quella canzone ha ancora senso, anche se si sono fatti molti progressi».
C’è grande dibattito nella City di Londra e nel mondo economico finanziario sul ruolo della donna nelle aziende: lei è favorevole a quote prestabilite riservate alle donne nei consigli di amministrazione, come nei paesi scandinavi?
«L’ho detto molte volte. Sono favorevole alle quote. Correggono una distorsione. Ormai si sa che senza le quote c’è una barriera culturale contro le donne che le esclude
sistematicamente. Non credo ce ne sia bisogno in modo permanente, ma è una misura temporanea per cambiare la cultura delle stanze dei bottoni».
Ci sono solo tre donne amministratore delegato tra le cento maggiori aziende del Regno Unito quotate in borsa: a cosa è dovuto?
«Le ragioni sono molte. Le donne hanno un rallentamento della carriera e in certi casi un’interruzione quando decidono di avere figli. In molti casi è una scelta, in altri è l’assenza di modelli culturali che le spingano ad una ambizione professionale. Molti progressi si sono fatti nella promozione delle donne nelle fasi iniziali delle carriere, ma poi ci si ferma. Io credo che molto ha a che fare con i modelli culturali, con l’imparare a
osare e ad acquistare fiducia in se stesse. Ma c’è anche una minore capacità delle donne ad organizzarsi, a fare network, a competere, e questo avviene perché le donne sono tagliate fuori da migliaia di sottili e invisibili meccanismi che le spingono ai margini di quell’insieme di relazioni informali che servono a fare carriera».
Cosa consiglia alle sue studentesse della London Business School che si affacciano al mondo del lavoro?
«Consiglio saggezza. Per uomini e donne la forza viene dal contenuto della propria ambizione e non solo da una volontà di affermazione ad ogni costo. Ma consiglio anche di trovare nella relazione con le altre donne una fonte di forza e di sostegno. I modelli femminili di riferimento sono importanti e sono una fonte di ispirazione».
Lei personalmente come ha affrontato il fatto di essere donna nella sua carriera?
«Ci ho messo molto ad acquistare sicurezza in me stessa. Ho fatto tanti giri prima di trovare la mia strada e credo di avere pagato un alto prezzo personale, almeno in certe fasi della mia vita. Ma sono contenta di avere l’opportunità di fare cose interessanti e di potere scegliere».
E che effetto le ha fatto vedere cinque ministri della difesa donne alla recente riunione della UE e metà del governo Renzi composto da donne?
«Un effetto fantastico!».
La Repubblica 08.03.14