“La parità di genere non si impone per legge” ha stabilito Maria Stella Gelmini, e per questo Forza Italia non si è dichiarata disponibile agli emendamenti che invece ne accolgono il principio, imponendo ad esempio l’alternanza uomo/donna in lista e la metà dei capilista donne. Forse, se all’ex ministro avessero chiesto della festa della donna, che cade domani, avrebbe proseguito contrariata osservando che nemmeno quella si può imporre per legge. Si può imporre infatti di festeggiare qualcuno o qualcosa, conculcando il diritto di libertà di chi invece proprio non vuol far festa? EvidentementeNO: perciò via la festa.
E forse anche: via quel senso di vincolo collettivo, pubblico, che si cerca di affidare ai gesti e alle manifestazioni dell’8 marzo.
A pensarci bene, poi, le parole della Gelmini sono un filo pleonastiche: non solo, avrebbe dovuto dire, le quote rosa non si impongono per legge, ma non si impone niente a nessuno. Non è questione di imposizione, insomma. Bensì di cortesia, di buona volontà, di garbo e, perché no? di cavalleria. Il tutto messo in un pacchetto e ben confezionato con in bella vista l’importante dicitura: «cultura». È questione di cultura, si dice infatti. Se non cambia la cultura del Paese, la presenza delle donne nelle istituzioni non sarà mai davvero paritaria. Intanto, però, è da dire che le cose stanno già cambiando: il 30 per cento della composizione dell’attuale Parlamento è costituito dalle donne (e svettano, quasi alla pari, le rappresentanze dei 5 Stelle e del Pd). È la percentuale più alta dall’inizio della storia repubblicana. In secondo luogo, si dimentica che le leggi sono uno strumento fondamentale proprio per il cambiamento della cultura di un Paese. Se è questione di cultura, è anche perché certe leggi promuovono attivamente una certa cultura: aperta per esempio ai diritti fondamentali, all’uguaglianza, alla parità di genere. Certo, Alcune volte sono i cambiamenti sociali e culturali del Paese a imporre mutamenti del corpo delle leggi, ma altre volte va al contrario, e non c’è alcun motivo per essere così perentori come la Gelmini, rifiutando di percorrere una delle due direzioni. Anche perché, nonostante i progressi compiuti, l’Italia è ancora un Paese a rappresentanza prevalentemente, quando non esclusivamente maschile: alla Presidenza della Repubblica, alla Corte Costituzionale, alla Corte dei Conti, alla Presidenza del Senato, e via elencando i vertici delle nostre istituzioni. Fa parzialmente eccezione la Camera, che ha avuto tre Presidenti donna, e ora il governo, dove il numero di uomini e donne è, finalmente, pari. Ma non si capisce perché non aiutare questo processo, cosa si teme da un maggiore ingresso delle donne nel Parlamento. La cui credibilità (dico quella delle Camere, non delle donne) è peraltro attualmente così bassa, come dimostra il rapporto Eurispes sul grado di fiducia nelle istituzioni, che ben difficilmente le quote rosa potrebbero peggiorarlo. D’altronde, la neo-capogruppo del Ncd alla Camera, Nunzia De Girolamo, ha ricordato proprio ieri alla Gelmini, in un tempo non lontano sua collega di partito, che ormai facciamo valere per legge la parità di genere nei consigli di amministrazione, sicché non si capisce perché per le Camere il principio non debba valere. Ed effettivamente: non si capisce. Il Pd in verità lo capisce il principio e lo adotta. Forza Italia no, non lo adotta e forse non lo capisce.
Si capisce invece quel che diceva Tina Anselmi, figura prestigiosa della politica italiana: «Nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere, se viene meno la nostra vigilanza». È giusto. Ma è vero pure che una legge può rendere un po’ meno reversibile l’incremento della rappresentanza femminile nel Parlamento italiano.
L’Unità 07.03.14