Dietro il caso di Luca Maestri balzato al vertice di Apple c’è un esercito di top manager italiani che hanno successo negli Stati Uniti… più che in Italia. Cosa ha di speciale il “modo di operare” americano, che attira e promuove l’élite dei nostri dirigenti d’azienda? Un’inchiesta in questo mondo mette in luce gli ingredienti chiave. La meritocrazia, certo, con quel che ne consegue: assenza di nepotismi, familismi, raccomandazioni, obbedienze politiche. Ma anche l’immunità verso quella “sindrome dell’invidia” che in Italia penalizza chi ha successo. E poi: pensiero positivo, “cultura del fare”, emulazione benefica che fa convergere gli sforzi perché l’innovatore, il pioniere, sia premiato dal successo. Lo raccontano i protagonisti, talenti italiani che qui hanno avuto più fortuna che in patria.
Ha fatto scalpore la nomina di Maestri, 50 anni e una laurea alla Luiss di Roma, come direttore finanziario del colosso digitale fondato da Steve Jobs: tocca a Maestri gestire una liquidità-record, 160 miliardi di dollari disponibili per investimenti e acquisizioni. Ma la parabola di Maestri, che già aveva lavorato per Xerox, General Motors e Nokia, è tutt’altro che anomala. Segnala un fenomeno ben distinto dalla “fuga di cervelli”, con cause e spiegazioni che vanno cercate altrove. Qui non si tratta di giovani neolaureati costretti a venire in America per trovare più opportunità e risorse nella ricerca universitaria. La categoria a cui appartiene Maestri è quella dei manager già affermati. Include un vasto arco di generazioni, dai 30 ai 60 anni. Abbraccia tutti i settori dell’economia. Per restare sulla West Coast o nell’economia digitale, spiccano personaggi che nel mondo del business americano sono celebri. Guerrino De Luca, romano anche lui, con laurea in Ingegneria nella capitale, dopo un passaggio da Apple
è da 15 anni il numero uno della Logitech, l’azienda leader nei mouse e nelle webcam. Diego Piacentini a 52 anni è il vicepresidente di Amazon e secondo alcune classifiche interne top-secret sarebbe anche il top manager più pagato dell’azienda di Seattle. Gianfranco Lanci, ingegnere del Politecnico di Torino, dopo una carriera da Texas Instruments e Acer ha conquistato la direzione generale di Lenovo, il gruppo cinese- americano (proprietà a Pechino e Hong Kong, management strategico negli Usa) che ha assorbito la divisione personal computer Ibm. E non è solo l’industria tecnologica che fa incetta di manager italiani. La vicenda di Fabrizio Freda abbraccia l’industria di largo consumo e quella del lusso: prima ai vertici di Procter & Gamble, ora chief executive e presidente di Estée Lauder. A Wall Street un gigante della finanza come Citigroup ha un vicepresidente italiano, Alberto Cribiore, nella divisione Institutional Clients che serve grandi imprese e governi, e il chief executive Francesco Vanni D’Archirafi alla Citi Holdings.
La buona notizia è questa: l’Italia continua a sfornare talenti anche nel top management, molti di questi dirigenti hanno ricevuto la prima formazione nelle università del nostro paese, evidentemente meno scadenti di quanto a volte si creda. Più inquietante, è un’analogia con l’India. Un altro caso recente di top manager straniero catapultato ai vertici di un colosso Usa, è l’indiano Satya Nadella nominato chief executive di Microsoft. In quell’occasione abbiamo ricostruito la geografia del “potere indiano” ai vertici di tante multinazionali Usa. Il raffronto è motivo di allarme: l’India è un gigante economico malato di burocrazia e corruzione, celebre per gli ostacoli che dissemina sulla strada dei suoi imprenditori, una “selezione al contrario” fa approdare i più brillanti di loro in California o a New York. E’ una patologia simile quella che colpisce il management italiano?
«Ciò che colpisce se lavori qui in California — mi dice Guerrino De Luca — è l’assenza di quel bagaglio fatto di relazioni familiari, di fedeltà di clan. Gli americani eccellono nel networking, che è la versione positiva e benefica delle raccomandazioni all’italiana:
networking vuol dire investire nelle conoscenze, nelle relazioni, ma senza essere prigioniero di una logica subordinata all’appartenenza di gruppo. Tra noi top manager italiani che abbiamo avuto successo qui, le qualità e i talenti sono gli stessi che portano al successo nella Silicon Valley dei colleghi francesi o tedeschi. Salvo che, in alcuni altri paesi, c’è meno bisogno di emigrare per veder riconosciute le proprie capacità… In Italia è decisivo sapere chi conosci, chi hai dietro di te, con chi sei affiliato, secondo logiche che possono essere dinastiche o politiche. La raccomandazione esiste anche qui, eccome, ma con la “r” minuscola: vieni raccomandato, se sei bravo, da chi ti ha visto all’opera e ha imparato a stimarti». A proposito di raccomandazioni, con minuscola, un tema centrale riguarda il modo in cui le aziende americane valorizzano i dirigenti. In Italia esistono capi che si circondano di “yes-men”, collaboratori la cui dote principale deve essere la fedeltà, l’obbedienza, ai limiti del servilismo. Nella Silicon Valley californiana viene premiato, al contrario, il pensiero trasgressivo: i grandi creativi da Steve Jobs in giù sono stati dei ribelli. Ma perfino in un establishment aziendale più antico e tradizionale, l’America ha metodi che premiano il leader capace di promuovere talenti veri attorno a sé. E’ quello che mi descrive Fernando Napolitano, presidente dell’Italian Business & Investment Initiative, che una settimana fa qui a New York ha organizzato un convegno per attirare nuovi investimenti americani nel nostro paese. Napolitano ha lavorato per Booz Allen, McKinsey e Goldman Sachs. E distilla questo condensato dalle sue esperienze: «La differenza con l’Italia è che i chief executive delle grandi imprese americane vogliono davvero promuovere la crescita dei loro collaboratori. E per i direttori delle risorse umane questa è la missione numero uno: far progredire le carriere dei dipendenti.
Un top manager qui in America è valutato anche per la sua capacità di trovare persone brave, e poi consentire che queste crescano. La competizione nel reclutare e allevare talenti è uno dei metri di misura della vera leadership. E non perché gli americani siano più virtuosi di noi: hanno semplicemente capito che è nel loro interesse». Dietro il comportamento che prevale ai vertici del capitalismo italiano, Napolitano vede un «rintanarsi nella propria nicchia, senza mettersi in gioco, per timore di rischiare, mentre è solo rischiando se stessi che si cresce».
Le storie più recenti di successo italiano in America hanno diversi elementi in comune. La sindrome di “invidia del successo” consente di osare meno in Italia che negli Stati Uniti. Compresa la variante che è la cultura del sospetto: “cosa c’è dietro” (il successo). Una pressione costante spinge a “pensare in grande” chi sbarca qui. In queste tipologie rientrano le storie più disparate. C’è “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, dapprima accolta tiepidamente in patria, ora in trionfo dopo l’Oscar. Ci sono storie di marchi storici della ristorazione, come il Sant’Ambroeus milanese o la Bottega del Vino veronese, che appena arrivati a Manhattan si allargano e si moltiplicano in quattro o in cinque. Perché qui, se sei molto bravo nel tuo mestiere, “devi” puntare a crescere sempre di più. E se non hai i capitali, qualcuno verrà a proporsi come socio per darti la forza finanziaria che meriti.
Una storia emblematica del divario Italia-Usa l’ha vissuta Fabrizio Freda. Ormai da anni al comando della multinazionale Estée Lauder, il gigante dei prodotti di bellezza con una capitalizzazione di Borsa oltre i 28 miliardi di dollari, Freda non ha mai smesso di sentirsi italiano. Qualche anno fa raccontò di aver tentato una “mission impossible”: di fronte allo stillicidio di acquisizioni straniere dei marchi di lusso made in Italy, Freda fece il giro di alcuni tra i più grandi imprenditori del settore provando a immaginare una grande alleanza che costituisse il polo italiano del lusso. Ma dovette scontrarsi con i tipici vizi italici: individualismi, personalismi, rivalità inconciliabili. Questo introduce l’ultimo ingrediente del successo americano che i nostri top manager incontrano arrivando qui. E’ quel “pensiero positivo”, spesso irriso o ridotto a una caricatura nel cinismo italico. Se lanci un’idea molto originale, radicalmente innovativa, a un tavolo di riunione dentro un’azienda o un’istituzione americana, la reazione prevalente tra gli altri seduti attorno al tavolo è una gara a migliorarla, a contribuire al suo successo. Lo stesso innovatore che lancia la sua proposta rivoluzionaria a un tavolo di italiani, diventa il tiro al bersaglio in una gara diversa: la corsa a chi trova difetti, per demolire il rivale potenziale e affondare la proposta troppo nuova.
La Repubblica 07.03.14