A questo punto i passi indietro non sono più consentiti. La soluzione adottata ieri per la riforma elettorale segna infatti una strada obbligata. Che per Matteo Renzi prevede due soli esiti: il successo con l’abolizione del Senato o il fallimento. Si tratta di una nuova scommessa in cui si vince o si perde tutto. on c’è dubbio che l’intesa raggiunta ieri in extremis con Silvio Berlusconi presenti degli aspetti di indeterminatezza e di confusione istituzionale consistenti. Si cambia il sistema per l’elezione dei deputati con l’introduzione del ballottaggio al secondo turno. Ci sarà insomma un vincitore certo. A urne chiuse, gli elettori sapranno chi governerà e chi starà all’opposizione. Si supera il vizio italico della indefinitezza post-elettorale. Soprattutto si annienta il rischio di ripresentare al Paese un governo di larghe intese come accaduto in questa legislatura. Nello stesso tempo, però, si lascia inalterata la legge elettorale del Senato. Resta quella modificata a dicembre scorso dalla Corte costituzionale. Una proporzionale pura corretta solo dalla soglia di sbarramento. I vantaggi della prima legge sono totalmente neutralizzati dalla seconda. Due sistemi chiaramente incompatibili. E che possono trovare una composizione solo ad una condizione: se si cancella l’aula di palazzo Madama. Se si instaura finalmente un modello monocamerale.
Ed è questa la scommessa che ieri il premier ha accettato. Riuscire in questa impresa prima che si torni al voto. Si gioca tutto anche questa volta. È come se dicesse al suo partito — non pienamente convinto della strada imboccata — e anche agli alleati: «Se non ce la faccio, vado a casa».
Un azzardo, però, che viene mitigato dalla constatazione che in assenza di un accordo — seppure confuso — tutto sarebbe saltato. Non tra qualche mese ma immediatamente. Renzi ottiene nella sostanza la possibilità di andare avanti, di provarci. Senza la riformulazione del patto con il Cavaliere, sarebbe invece sprofondato in una palude. Il perno su cui ha costruito la “staffetta” con Enrico Letta, sarebbe stato distrutto dopo solo una settimana di lavoro a Palazzo Chigi. E ottiene questa sorta di rinnovata linea di credito imponendo a Berlusconi una soluzione che lo stato maggiore di Forza Italia non apprezza.
Certo il leader democratico sa di dover pagare in cambio dei prezzi politici. L’idea della “doppia maggioranza”, una per il governo e l’altra per le riforme, da ieri è nella sostanza evaporata. Si sono, per così dire, sovrapposte. Agli alleati “governativi” concede una sorta di golden share.
Alfano può elevare il livello delle sue richieste nella certezza che da qui all’abolizione del Senato non si può riportare il Paese alle urne. L’arma nelle mani del premier, quella di sciogliere il Parlamento e rivotare, si è improvvisamente scaricata. Anzi, adesso è il premier a esporsi ai ricatti. Anche all’interno del suo partito, dove molti sono pronti a fargli pagare il blitz contro Letta e dove quasi tutti adesso credono di poter fare la voce grossa sugli emendamenti da presentare all’Italicum nella speranza adesso di poterlo piegare. Questo potrebbe avere conseguenze anche sul resto del programma di governo. A cominciare dalla politica economica.
La stessa fiche può essere giocata anche dal leader forzista. Una volta scontata la condanna per il processo Mediaset, all’inizio del 2015 può rimettere in discussione il patto puntando proprio sulla legge elettorale. Senza la “grande riforma” infatti il sistema di voto mostrerà inesorabilmente tutti i suoi limiti e il suo carattere di “ibrido”. È vero che già i costituenti del 1948 avevano voluto differenziare la natura delle due Camere (solo nel 1963 venne equiparata la loro durata, fino a quel momento la legislatura senatoriale era di sei anni) e Costantino Mortati precisava nei lavori dell’Assemblea che proprio il «metodo delle elezioni» doveva essere uno degli elementi di distinzione tra Montecitorio e Palazzo Madama. Ma in questo caso emerge non un elemento di distinzione ma di contrapposizione: i due sistemi si qualificano naturalmente come opposti. Ed è chiaro che con il proporzionale puro nessuno avrebbe la maggioranza al Senato e l’esito finale sarebbe scontato: la riedizione delle larghe intese.
Il presidente del Consiglio a questo punto non ha alternative. Il suo è un volo senza paracadute. Non può fare altro che accelerare e puntare tutto sulla “revisione storica” della Costituzione. Ma probabilmente dovrà modificare la sua tattica. Sarà costretto a cambiare pelle e sostituire la politica del “tutto e subito” con quella di “un passo alla volta”. Forse dovrà fare suo quel che diceva il generale cinese Sun Tzu: «Chi è prudente ed aspetta con pazienza, sarà vittorioso». La sua strategia, del resto, a questo punto può richiedere molto più tempo del previsto. Abolendo il bicameralismo perfetto, sarà necessario correggere molte parti della Costituzione e diverse leggi ordinarie. Complicato realizzare tutto in un solo anno. Molti puntano alla scorciatoia della urne e per Berlusconi sarà ancora più complicato aspettare che il tempo passi inesorabilmente. «Ma il mio obiettivo — ripete il premier — è arrivare ad una riforma storica ». Che ora è diventata anche
una strada obbligata.
La Repubblica 05.03.14