Donne che rinunciano al lavoro per la maternità, donne che rinunciano alla maternità per il lavoro. Da dove la si guardi la condizione delle donne “fertili” è sempre più difficile. Tasso di natalità tra i più bassi del mondo occidentale, tasso di occupazione femminile ugualmente fra i più bassi, che continua a scendere come confermano gli ultimi dati dell’Istat, siamo arrivati al 46,4%.
I dati resi noti dalla Cgil fotografano un piccolo pezzo d’Italia ma significativo: le Marche. Nella regione sono 573 le madri nel 2013 che si sono dimesse nel primo anno di vita del figlio, durante la gravidanza o dopo la nascita. Si tratta di dimissioni volontarie, convalidate dalle direzioni provinciali del lavoro, come obbliga la legge Fornero. Alle madri si aggiungono 70 padri. In tutto 643 lavoratori. Nel quinquennio 2009 e 2013 sono stati 2.980 di padri e madri che hanno perso il lavoro. A questo numero se ne aggiunge un altro, difficile da quantificare, di mamme con contratti precari (che non devono convalidare alle direzioni provinciali). Un 18% trova un altro lavoro, il resto no. Le motivazioni dell’abbandono? Per il 22% non c’è un parente a cui affidare il bambino, il 18% non ha ottenuto l’iscrizione al nido, l’8% si lamenta degli elevati costi dei servizi nido e baby sitter. Il 2% si dimette per mancata concessione del part-time. Il 58% è al primo figlio, nel 70% dei casi si tratta di Pmi con meno di 15 dipendenti. Le Marche sono solo un pezzo d’Italia, con 1 milione e mezzo di abitanti e la Cgil sta raccogliendo in questi giorni anche i dati delle altre regioni che al momento mancano.
Ma a fare un quadro completo del fenomeno maternità e lavoro ci ha pensato l’Istat, che nel 2012 ha pubblicato gli ultimi dati. Nel 2010 erano occupate il 64,7% delle donne incinta, diventano il 53,6% due anni dopo la nascita del bambino. Quelle che sono state licenziate sono il 23,8%, quelle il cui contratto non è stato rinnovato o l’azienda ha chiuso sono il 15,6%, quelle che dichiarano di essersi licenziate sono il 56,1%. Il dato che preoccupa è che in dieci anni, dal 2002 al 2012 le donne che hanno perso il lavoro sono aumentate del 40%. Nel 2012 quasi una madre su quattro a distanza di due anni dalla nascita del figlio non ha più un lavoro, un dato stabile nel tempo.
«E’ un dato pesante, strutturale che si trascina negli anni, si evidenzia che c’è un problema serio nel rapporto maternità-lavoro -commenta Linda Laura Sabbadini direttrice dipartimento Statistiche sociali dell’Istat – . È un problema che si ritrova anche in altri paesi europei, il tasso di occupazione cala da donne senza figli a donne con figli, ma non nella dimensione che assume in Italia. Questo è dovuto al combinarsi di una serie di motivazioni, quella fondamentale è la conciliazione dei tempi di vita delle persone, ovvero l’organizzazione dei tempi per sé stessi, la famiglia, il lavoro. Siamo una società rigida, e la conciliazione non è mai stata perseguita con forza mentre nei paesi nordici l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro fin dagli anni 50 ha visto un impegno forte nelle politiche sociali e dei servizi. Noi abbiamo avuto la legge sui congedi parentali e sui servizi innovativi dell’infanzia solo nel 2000, un momento particolarmente effervescente che non ha avuto un’adeguata continuità».
A frenare l’occupazione femminile e anche la natalità per Sabbadini è anche «una rigidità di ruoli all’interno della coppia rispetto ad altri paesi, il sovraccarico dei compiti domestici e di cura sulle donne è maggiore. La rigidità c’è nella famiglia e nell’organizzazione del lavoro a parte nel settore della pubblica amministrazione».
Quante donne invece rinunciano alla maternità per non perdere il lavoro? «Sappiano che il numero ideale di figli è lontano da quello reale, sia uomini che donne desiderano 2 figli, mentre il tasso di fecondità è di 1,3 figli per donna. In questi anni di crisi la fecondità si sta abbassando tra le italiane e le straniere che l’hanno tenuta alta, anche loro cominciano ad avere problemi di conciliazione non indifferenti perché manca una rete di supporto famigliare».
Un dato forse positivo c’è: a mantenere il lavoro sono soprattutto le laureate che lo lasciano o perdono ’solo’ nel 12,2% dei casi. « Ci dice che il maggior investimento in cultura e informazione le protegge di più, sono inserite in mansioni in cui sono meno ricattabili o sottoposte, in famiglie di status sociale più elevato in cui ci si può permettere il pagamento anche di servizi privati o sono in posizioni che permettono una maggior conciliazione di tempi di vita come è per le insegnanti o nella Pa. Inoltre, le laureate hanno il vantaggio che hanno una divisione dei ruoli nella coppia migliore delle operaie o delle lavoratrici in proprio». Però la «strozzatura c’è – conclude Sabbadini – c’è un clima sociale assolutamente sfavorevole alla maternità e alla paternità, niente va incontro alle esigenze di chi vuole avere figli. Non c’è una causa, ma un complesso di fattori che scoraggiano».
La Stampa 04.03.14