Lo scorso weekend ho visto, come molti italiani, Smetto quando voglio . Un film leggero che racconta una storia pesante. Il cuore della vicenda riguarda i nostri laureati più bravi e il fatto che purtroppo il Paese non sa che farsene. Risultano, come si dice in gergo, overqualified , cioè troppo preparati per il mercato del lavoro che li aspetta. Chiunque, come chi scrive, viva nel mondo dell’università è pienamente, e tristemente, consapevole della situazione. Il problema consiste nel sapere che cosa si possa fare per uscirne. E, innanzitutto, nel rendersi conto dei segnali che non diamo e delle direzioni sbagliate che prendiamo. Di questi errori, teorici e pratici assieme, mi permetto di segnalare i tre che sono all’origine di ripetute proposte di riforma.
Il primo errore sta nell’insistere sul fatto che l’esperienza della research university sia definitivamente al tramonto. università di ricerca sono quelle che, come Harvard e Oxford, impegnano enormi risorse non solo economiche nella ricerca di base. E vedono l’insegnamento come un’attività non indipendente da questa stessa ricerca. Ritengono che la teoria sia un lusso necessario senza il quale anche la prassi perde valore. Queste benemerite istituzioni attraversano davvero un periodo di crisi, ma non si vede chi e che cosa possa prendere il loro posto. Gli esperimenti di e-learning e insegnamento a distanza sono lontani dal raggiungere un livello adeguato.
Il secondo errore consiste nel ritenere che bisognerebbe puntare tutto sul rapporto tra formazione e mercato del lavoro. Nessuno sottovaluta la tragedia della disoccupazione giovanile. Tuttavia, pensare che si risolva il problema dell’università italiana, e più ancora del Paese intero, sfornando solo tecnici possibilmente con laurea breve è una sonora sciocchezza. Non lo dico solo per amore delle humanities o per nostalgia della cultura letteraria di una volta. Ma piuttosto perché mai come adesso l’Italia ha bisogno di creatività e dialogo tra diversi approcci scientifici e tematici. Tutto ciò non lo si ottiene trasformando le università in agenzie interinali, ma gettando le basi per un futuro in cui l’immaginazione aiuti la produzione. Bisogna evitare soprattutto di confondere le acque: i problemi che abbiamo non sono tanto dell’università ma del tessuto produttivo italiano. La proposta di rito di tagliare i fondi alla ricerca non serve quindi a niente, perché è fondamentalmente l’economia del Paese che non funziona.
Il terzo errore dipende dal credere che la competenza accademica e scientifica si possa misurare con standard esterni puramente formali. La sfilza infinita di tabelle, indici, mediane e così via non produce giovani studiosi migliori. Tutt’al più produce specialisti nel farsi inserire nei ranking nazionali e internazionali. Come sa chiunque abbia fatto ricerca, la capacità di farla dipende dalla passione, dal contesto intellettuale e dagli esempi che abbiamo a portata di mano. Non certo dalle classifiche. In tutti i casi, svuotare le istituzioni accademiche di finanziamenti e risorse, come accade ormai da troppo tempo, non può che condurre alla fine dell’attività di ricerca di un Paese, indipendentemente dai criteri di valutazione che si vogliano adottare. Continuando così arriveremo al paradossale mondo in cui tutte le nostre energie si concentrano sul tentativo di «misurare», senza sapere bene come e perché, qualcosa che sta inesorabilmente scomparendo.
Si potrà essere più o meno convinti dalle mie tesi. Certamente, però, ci si chiederà perché questi tre mantra sull’università siano, a mio avviso, così pericolosi. Lo sono perché nel loro insieme tendono ad annichilire la priorità dello studio e della ricerca nell’ambito della formazione accademica. E una conseguenza del genere è assai rischiosa perlomeno per due ragioni. In primo luogo, l’università italiana non è poi così male, soprattutto se si considera l’investimento economico, morale e politico su cui può contare. Avendo avuto l’opportunità di insegnare in alcuni dei migliori atenei del mondo, ho la consapevolezza che gli studenti e ricercatori italiani in media non sono peggio degli altri. Tanto è vero che quando vanno all’estero hanno di solito ottimi risultati. Se noi insistessimo a commettere gli errori di cui ho parlato, invece, peggioreremmo la qualità scientifica del Paese e annulleremmo l’amore per la ricerca dei nostri futuri studenti. In secondo luogo, l’Italia vive un periodo di crisi profonda legato alla presenza di mercati globali che ci rendono comparativamente meno produttivi. L’unico modo per uscirne — in un Paese che gode tra l’altro di una straordinaria storia culturale — consiste nell’investire in capitale umano. Gli errori che ho indicato vanno invece nella direzione opposta.
Il Corriere della Sera 02.03.14