Il popolo europeo ancora non c’è. Il populismo invece avanza. Anzi, i populismi. Diversi tra loro per messaggi, leadership, matrici geografiche e culturali. E tuttavia accomunati da aspettative crescenti, dal vento della crisi che ne gonfia le vele, da parole d’ordine che stanno diventando senso comune. A cominciare dall’avversione all’euro e all’Unione, dalla chiusura delle frontiere agli immigrati, dal no alle tasse e all’intervento pubblico, dall’incessante polemica contro l’establishment. È politicamente scorretto affiancare il Front National della signora Le Pen con il Fidesz del premier ungherese Orban, il Pvv olandese di Wilders con il partito di Grillo, Alternative fur Deutschland con il Fpo austriaco o con le nuove destre scandinave, però sono innegabili i tratti comuni, favoriti anche da quel linguaggio antipolitico che oggi appaga il diffuso senso di frustrazione e di paura.
Alle prossime elezioni saranno i populisti gli avversari politici più insidiosi della sinistra europea. O forse occorre dire, anche in questo caso, delle sinistre nazionali in Europa, perché purtroppo il sogno europeista – sì, gli Stati Uniti d’Europa, unica possibilità per il Continente di giocare un ruolo da protagonista nella globalizzazione – è ancora lontano dalla famiglia socialista che ieri a Roma ha accolto ufficialmente il Pd e annunciato la candidatura di Schulz alla presidenza della Commissione. Sono i populisti gli avversari più insidiosi perché hanno messo radici nelle stesse basi elettorali e sociali della sinistra. Perché mietono consensi nelle fasce più povere, tra i giovani senza lavoro, nella classe media minacciata. Perché condizionano ormai tutti gli attori politici, e dunque anche le forze di sinistra, il loro sistema di valori. Entrato nella circolazione sanguigna nella sinistra, il populismo la spinge verso radicalismi generici, ma difficilmente questo rafforza i valori di solidarietà e uguaglianza, oppure l’efficacia dei programmi di governo. Di solito produce ancor più dipendenza, più rabbia, più solitudine.
Così, nel timore di non farcela a battere i populismi, si diffonde a sinistra la tentazione di scendere a patti. Si dice che ci vorrebbe un po’ più di «populismo di sinistra». Che l’antipolitica va combattuta con astuzia, assorbendone alcune ragioni. Bisogna intendersi: la sinistra deve anzitutto rimettere radici nel «popolo», dove le ha perse. Questo è il vero problema. E per farlo deve riconoscere i suoi errori e i limiti della politica attuale. Non basterà però un gioco di parole o una spruzzata di indignazione per riacquistare la credibilità perduta. È tempo di dire con forza che questa Europa va cambiata. E soprattutto come va cambiata: con investimenti per lo sviluppo, con bilanci comunitari più impegnativi, con maggiore integrazione, con politiche attive per il lavoro e per i giovani, con la difesa e il rinnovamento del modello sociale europeo. La sinistra deve tornare a essere sinistra. Anche quando è al governo. Diversa dai conservatori europei, non appiattita nella gestione dell’Unione intergovernativa, più coraggiosa nel parlare di Europa unita. La candidatura di Schulz sarà un passo avanti se la campagna elettorale avrà il segno dell’Europa «da cambiare». Ma nessuno si illuda che il percorso sia agevole. I populismi non sono un retaggio del passato. Sono una manifestazione della modernità, che si scontra con la globalizzazione ma ne usa gli strumenti. La sinistra italiana lo sa bene, avendo pagato un prezzo alto all’esplosione elettorale dei Cinque stelle. La modernità sta nella comunicazione veloce, nelle ingiustizie della globalizzazione e dell’austerity europea, nell’insostenibilità del vecchio compromesso tra lavoro, welfare, cittadinanza. Per questo sono necessarie nuove politiche. L’impressione è che la famiglia socialista sia consapevole del bisogno di una nuova «politica». Ma le «politiche» concrete, quelle che producono effetti tangibili, appaiono tuttora inibite da poteri e dottrine che sopravvivono al loro fallimento.
E comunque anche le politiche, da sole, non basteranno a rianimare quella competizione tra destra e sinistra, che i populisti negano. Per tornare ad essere se stessa, la sinistra deve far rivivere i propri valori costitutivi. La sinistra è la speranza di una società più solidale e carica di opportunità. È il desiderio di eguaglianza di chi ha di meno. È, al fondo, l’idea che la persona non verrà abbandonata all’individualismo e alla solitudine. O l’Europa tornerà a essere veicolo di questa visione di pace e prosperità oppure soccomberà tra nazionalismi rinascenti e opportunismi intergovernativi. Il nucleo vitale della sinistra sta nell’affermazione dei diritti sociali e delle speranze comunitarie. Gli stessi diritti civili sono il compimento di una società più solidale: laddove invece i diritti individuali diventano il surrogato (magari in versione ultra-radicale) di una sinistra impotente nelle politiche economiche e sociali, allora non ci sarà più argine all’egemonia liberista e al pensiero unico. Per vincere questa partita la sinistra deve rifondarsi. È una partita epocale. Da essa dipenderà l’Europa dei nostri figli. E forse anche un po’ della civiltà del mondo globalizzato.
l’Unità 02.03.14