La cronaca di ieri ci ha regalato una coincidenza che deve far pensare. A Roma il partito dei socialisti e democratici europei discuteva il futuro dell’Unione, pieno di problemi, certo. Ma è un futuro radicato nella consapevolezza storica di un destino comune che ha per sempre cancellato la guerra dal suolo dell’Europa. Di questa Europa. Nelle stesse ore in Crimea e sugli incerti confini tra l’Ucraina e la Russia comparivano sulle strade i carri armati, preludio di una guerra che forse c’è già. O che forse non ci sarà ma che comunque è possibile, e la possibilità, le paure, gli odi, i risentimenti che essa porta con sé, hanno la stessa dura consistenza dei fatti. Anche la Crimea, l’Ucraina e la Russia sono Europa. E l’idea che si possa distinguere tra questa e quella Europa è un’illusione. Patetica e pericolosa, come appare evidente se si torna con la memoria alle guerre guerreggiate nei Balcani. Non sono passati neppure vent’anni e chissà quanti ne dovranno passare prima che si spengano le braci che covano ancora sotto la cenere degli accordi e degli equilibrismi tra le nazioni e le etnìe imposti dall’Occidente.
Le immagini dei carri armati nelle strade, dei soldati con il mitra puntato sui civili impauriti entrano con la prepotenza nella nostra percezione e ci feriscono perché sono un richiamo alla nostra impotenza; perché, subdole, insinuano il dubbio che non si tratti di storie lontane che non ci riguardano o riguardano, al massimo, la nostra umana sensibilità. C’è, in noi europei di questa Europa, un sottile senso di colpa che nei commenti e nelle dichiarazioni politiche viene sussunto nella categoria dell’Europa che non c’è: l’Unione non ha una politica estera comune e quindi non ha voce nelle crisi, neppure quelle che la sfiorano; i paesi si muovono in proprio e con gli occhi fissati sui propri interessi e le proprie relazioni ed il risultato è questo. L’autocritica è sacrosanta ma non basta. La crisi dentro l’Ucraina e poi tra l’Ucraina e la Russia non è solo il prodotto di un’assenza dell’Europa, ma anche di errori che sono stati compiuti dall’Unione, da alcuni dei maggiori paesi europei, dagli Usa e dalla Nato: le illusioni sollevate dalla prospettiva, fatta balenare agli oppositori democratici, di una rapida integrazione nella Ue per la quale non c’erano le condizioni; le condizioni feroci poste dal Fmi all’ipotesi di un prestito che avrebbe potuto liberare Kiev dal ricatto economico di Mosca; le ripetute spinte delle amministrazioni americane sul possibile allargamento della Nato ad est; le ambiguità colpevoli nell’atteggiamento di diversi paesi europei verso Putin, autocrate da condannare ma partner commerciale corteggiato. E infine una certa incomprensione del carattere assai composito e storicamente condizionato dell’entità statale ucraina, con le servitù militari russe in Crimea, la composizione etnica del paese, i risentimenti tra le diverse regioni, la cecità di fronte alla presenza, nel movimento di rivolta, di componenti ultranazionalistiche e antisemite.
Questi errori non giustificano, ovviamente, l’atteggiamento aggressivo e pericoloso di Mosca che ha registrato una pesante escalation con il voto della Duma a favore dell’annuncio dell’«intervento armato» da parte di Putin e la richiesta di ritirare l’ambasciatore a Washington. Debbono però essere considerati nella ricerca di un assetto che garantisca la tutela dei diritti e delle libertà degli ucraini e quella della stabilità nell’area. Ha fatto bene Martin Schulz a dichiarare, appena eletto dal congresso di Roma candidato alla presidenza della Commissione Ue, che «l’integrità territoriale dell’Ucraina va rispettata» e che «non accetteremo violenze» da parte dei russi. Ma aggiungendo che «deve essere garantita l’autodeterminazione» del paese, di fatto l’esponente socialdemocratico mette in conto anche l’ipotesi di una scissione da parte della Crimea e delle regioni orientali a maggioranza russofona. Schulz sottolinea che la questione non è affare solo di Kiev e di Mosca «ma di tutta la comunità internazionale» e vanno coinvolti «non solo la Ue ma anche gli Usa, l’Onu e l’Osce». È possibile, anche se improbabile, che le pressioni della comunità internazionale facciano recedere Putin. Così com’è possibile che il conflitto porti, alla fine, a una divisione del paese. Ma ciò che gli europei dovrebbero impegnarsi a garantire è che le soluzioni vengano cercate con la garanzia delle organizzazioni internazionali, l’Unione, gli Usa, l’Osce ma, come chiede Schulz, anche l’Onu. Può sembrare una manifestazione di ottimismo incongruo, ma la crisi ucraina, nella quale né la Ue né gli Usa sembrano in grado di mediare, pare dimostrare in modo plateale la necessità che si riprenda l’iniziativa sulla riforma e la rivitalizzazione delle Nazioni Unite.
L’Unità 02.03.14