Alla vigilia della riunione del Partito socialista europeo per la preparazione del programma elettorale il Pd, finalmente, supera quelle ritrosie che l’hanno lasciato a lungo in un limbo indefinito e aderisce alla famiglia dei socialisti (e democratici) europei.
Questo passaggio, che non era riuscito alle precedenti leadership “di sinistra”, da Veltroni a Bersani, viene ora attuato da un segretario che proviene da tutt’altra tradizione politica. Anche questa decisione segnala la crisi verticale del vecchio establishment di derivazione Ds-Ppi. I ritardi, le incapacità e le debolezze di quelle tradizioni si erano talmente incrostati negli ultimi due decenni da aver prodotto un collasso per estenuazione. Non c’era più linfa vitale: si era esaurita la capacità di definire progetti, saldare alleanze, incrociare domande della società civile. Il leader del Pd, nonostante le sue origini politiche, possiede una carica rivoluzionaria: non ha tabù né reverenze. Se l’adesione al Pse è una condizione necessaria per poter giocare un ruolo in Europa grazie al sostegno dei partiti socialisti, allora al bando le pruderie post- democristiane.
Questa disinvoltura, nel bene e nel male, è agli antipodi della ponderata prudenza della vecchia classe dirigente. Nemmeno i nuovi antagonisti interni hanno preso le misure della forza trasformativa e della spregiudicatezza del loro leader. Non ci è riuscito il soave e riflessivo Cuperlo, e fatica anche l’irrequieto Civati, la cui determinazione è inversamente proporzionale a quell’aria casual e distaccata, come fosse capitato lì per caso. Il 68% di voti a Renzi nelle primarie esprimeva una volontà insopprimibile di voltare pagina, alla quale si sono acconciati anche tanti che non condividevano le idee del sindaco di Firenze. L’importante era cambiare verso. Smuoversi dalle pastoie, da quel senso di inconcludenza che faceva sprofondare il Pd nell’irrilevanza. Ed è proprio il diffondersi ancora di questa terribile sensazione che ha perso Letta.
Renzi ha (re) introdotto nel Partito democratico quella “durezza” che un tempo non mancava nei vecchi partiti di massa e che poi si era persa nella immaterialità della fascinazione dei partiti leggeri. Con il brutale passaggio di consegne alla guida del governo (plasticamente rappresentato da quei 16 secondi di gelo tra Renzi e Letta durante il rito della campanella) il Pd, da lato, si è democristianizzato accedendo a modalità cannibaliche di eliminazione dei propri dirigenti, dall’altro, si è modernizzato adottando stili da Wolf of Wall Street, spregiudicati, diretti, ultimativi. Per molti, tutto ciò è comunque meglio della palude e degli infingimenti del passato.
Al di là di ogni giudizio, la defenestrazione di Letta risponde all’imprinting della nuova classe politica democrat entrata massicciamente negli organi dirigenti del partito (i renziani) e nei gruppi parlamentari (bersaniani e giovani turchi). In un anno il rinnovamento tanto nel partito quanto in Parlamento è stato tellurico. E Renzi incarna all’ennesima potenza questa rivoluzione di modi, stili e riferimenti, senza una stella polare ideologica da inseguire (nemmeno l’omaggio di rito a Norberto Bobbio convince) ma piuttosto con un caleidoscopio cangiante di opzioni, di cui l’adesione al Pse costituisce un esempio: valutato il danno di una posizione ambigua e indefinita in Europa e il rilievo della competizione bipolare anche nel Parlamento europeo, Renzi ha buttato alle ortiche le resistenze d’un tempo e immesso il Pd nel suo alveo naturale.
La politica postmoderna ha trovato il suo cantore sul versante del centrosinistra proprio quando dall’altra parte dello schieramento politico Silvio Berlusconi ha perso il touch, il contatto con la realtà, condannandosi alla ripetizione ossessiva dei refrain del passato. Con l’innesto di una leadership veloce, interconnessa e digitale il Pd ha un solo contraltare di fronte a sé: il Movimento 5 Stelle, l’unico che si muova sul suo stesso terreno. Il conflitto più aspro non riguarderà più la contrapposizione con la destra berlusconiana ormai decisamente superata, tanto che Renzi ha giocato di sponda con il Cavaliere in tutta souplesse, senza esserne condizionato in nulla.
Game over aveva detto, e così è in effetti. Poi la destra manterrà i suoi consensi, com’è ovvio. Ma la competizione vera, per la conquista dei voti contendibili, è ora con il M5S, al fondo molto più sintonico al renzismo di quanto non facciano trasparire le polemiche di questi giorni. Anzi, proprio l’impennarsi della tensione tra Pd e M5S e la reazione scomposta di Grillo con le espulsioni a raffica dimostrano che la competition è tra quei due partiti.
La Repubblica 28.02.14
2 Commenti