Quando il presidente Renzi l’altro giorno ha invocato “una gi-gan-te-sca opera di semplificazione!”, con tutto il rispetto veniva da pensare a Ennio Flaiano, il più italiano degli scrittori moderni e il più moderno degli italiani — come risulta con allegro sgomento nell’acuto saggio di Diego De Angelis su
Flaiano e la Pubblica Amministrazione (Rea, 2010).
E dunque: «Gli presentano un progetto per lo smaltimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modello H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta creando».
Questo scriveva Flaiano nel 1951. Pochi mesi prima, con il VII governo De Gasperi, era nato il ministero “per la Riforma burocratica”, affidato all’amministrativista ligure Roberto Lucifredi, già fautore dell’abolizione delle province (!). Questi rimase lì per cinque governi di seguito, anche se subito il ministero cambiò nome intitolandosi “Riforma della PA”.
Nel 1954 Fanfani ripristinò l’originaria denominazione. Ma quattro anni dopo la burocrazia scomparve per sempre a beneficio della PA. Nel 1960 di nuovo e ancora Fanfani abrogò il pericolante dicastero sostituendolo con un sottosegretariato. Agli albori degli anni 60 riacquistò rango ministeriale e dopo una serie di figure minori vi rimise piede, una specie di canto del cigno, Lucifredi. Dopodiché i dc lo diedero in appalto al Psdi.
Sembra ovvio, ma nel frattempo la burocrazia estendeva il suo potere invadendo qualsiasi campo della vita pubblica. Dal che in un altro taccuino di Flaiano (che di suo aveva commesso l’ingenuità di chiedere al comune di Pescara se fosse stato registrato come Ennio o Enio) si legge: «Dopo la calata dei Goti, dei Visigoti, dei Vandali, degli Unni e dei Cimbri, la più rovinosa per l’Italia fu la calata dei Timbri. Erano costoro barbari di ceppo incerto, alcuni dicono autoctoni, dall’aspetto dimesso e famelico, che ispiravano più pietà che terrore».
Nel 1968 il ministero se lo riprese la Dc. E vi piazzò a lungo Remo Gaspari. Ma con un colpo di fantasia dei suoi Rumor volle ribattezzarlo “Organizzazione della PA” mentre Moro, che almeno possedeva il pessimismo dell’intelligenza, lo dedicò se non altro ai “Problemi della PA”. E insomma la storia è lunga, forse noiosa, ma istruttiva. Andreotti, che pure si definiva «un burocrate», ancora una volta lo degradò. Così come si deve a Cossiga (1980) la rinuncia nel titolo a ogni idea di riforma e venne alla luce la “Funzione pubblica” — subito corretto in “Finzione pubblica”.
Tale restò per tutti gli anni 80 e 90 e anche oltre. Vi si esercitarono invano anche illustri tecnici: Massimo Severo Giannini, Paladin e poi anche Cassese. Il IV governo Fanfani (1987) lo unificò con gli Affari Regionali, come più tardi Berlusconi (1994). Quindi Dini, Prodi, D’Alema e Amato bis ancora lo declassarono. Ma nel 2001 Berlusconi lo promosse di nuovo, accontentando Frattini e assicurandogli pure l’indispensabile soccorso di un sottosegretario. Il Prodi bis (2006) cancellò la dizione la Funzione Pubblica per varare il ministero per la “Riforma e l’Innovazione nella PA”. Il Berlusconi ter (2008) invertì i termini lessicali della faccenda, chiamandolo “PA e Innovazione” — e si ebbe la spumeggiante epopea di Brunetta. Ma al tempo stesso alcune funzioni se le prese la “Semplificazione normativa”, il cui titolare, Calderoli, armato di lanciafiamme bruciò quintali di leggi nel cortile dei pompieri.
Monti unificò i doppioni creando il ministero per la PA e la Semplificazione; ora Renzi ne lancia un altro per la Semplificazione e la PA; e sempre più si avverte la nostalgia di Ennio (o Enio) Flaiano.
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“BUROCRAZIA. La consorteria dei mandarini più forte di qualsiasi governo”, di ALBERTO STATERA
Li chiamano mandarini. E a ragione, perché l’organizzazione delle burocrazie fu importata originariamente in Europa dai missionari cattolici provenienti dalla Cina, dove avevano osservato il complesso sistema di selezione dei mandarini e dalla durata delle loro cariche pubbliche. Ora Matteo Renzi, con giovanile impeto, giura che per lui la “madre di tutte le battaglie” sarà riformare «l’albero mortifero della burocrazia », come lo chiamò Gaetano Salvemini. Bella sfida, con la quale si sono misurati invano nei decenni decine di presidenti del Consiglio e di ministri, dando vita anche ad episodi di rara comicità. Come quando nel 1964 il ministro per la Riforma della Pubblica amministrazione del primo governo Moro, il socialdemocratico Luigi Preti, indisse un concorso a premi tra tutti i cittadini (150 mila lire) per le migliori idee di riforma dell’apparato burocratico dello Stato. Il povero Preti forse immaginava quella immensa “macchina senz’anima” descritta da Max Weber come un esercito di Policarpo De’ Tappetti ufficiale di scrittura, l’impiegato ministeriale della Roma Umbertina interpretato da Macario in un film di Mario Soldati. E non come una consorteria di potenti
grand commisinamovibili
che i ministri se li bevevano in un sorso nei pochi mesi in cui questi restavano in carica. Il professor Sabino Cassese, massimo esperto di Pubblica amministrazione, ricorda spesso come il ministro del Tesoro Gaetano Stammati prendesse ordini in quasi tutto dal ragioniere generale dello Stato Vincenzo Milazzo e per il resto da Luigi Bisignani, che già stava mettendo in piedi il suo “nominificio”.
Naturalmente dell’ingenuo concorso di Preti non si seppe più nulla. Poi a partire dal 1998 leggi diverse hanno disposto che i dirigenti dello Stato più alti in grado siano legati alla durata dei governi, mentre gli altri possono essere nominati nell’incarico per non meno di tre e non più di cinque anni. Ma non molto è cambiato con l’applicazione di un minispoils system nel quale consiglieri di Stato, consiglieri della Corte dei conti, giudici dei Tribunali amministrativi, avvocati dello Stato e giuristi vari, si alternano – più o meno semmare.
pre gli stessi – nei gabinetti ministeriali e negli uffici legislativi, come nella porta girevole di un Grand Hotel.
Anche il governo Renzi dovrà fare il suo spoils system nel prossimo mese. E sarà curioso vedere alla prova Marianna Madia, quella giovane eterea messa al ministero per la Pubblica amministrazione e la semplificazione alle prese con mandarini astuti, potenti anonimi, alcuni dei quali affetti dalla sindrome della “leadership tossica”, come la chiama lo psicologo Andrea Castiello d’Antonio, e esperti cultori di “sabotaggio burocratico”.
Le premesse, per la verità, non sono le più incoraggianti. Il ministro ciellino Maurizio Lupi ha già confermato alle Infrastrutture Ercole Incalza, che calca i corridoi di quel ministero fin dai tempi del socialista Claudio Signorile. Mentre l’ex ministro dei Beni Culturali Massimo Bray, è caduto nella rete di Salvo Nastasi, giovane padrone di fatto del ministero, appartenente alla squadra di Gianni Letta, che adesso Dario Nardella, prossimo sindaco di Firenze, preme su Renzi chissà perché per far confer-
Ma si sa, la legge si applica per tutti e si interpreta per gli amici. Solo tre esempi, per ora, in attesa di vedere che cosa il nuovo governo saprà fare almeno nelle cinquanta poltrone più importanti nella Pubblica amministrazione. Ma già Luigi Einaudi avvertiva: «Il vero ostacolo per l’attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi che non sono in grado di compierla da soli. Per quanto siano bravi, per riformare devono fidarsi di qualche funzionario, o competente, non interessato, devoto al Paese il quale dica ad essi che cosa devono fare». Sarà brava la Madia, o lo stesso Renzi che rispetto ai suoi ministri sembra comportarsi come un uomo solo al comando? O sarà vero, come dice qualche suo amico, che Matteo si è già innamorato della sacralità di certi legulei capi di gabinetto? Alcuni sono notoriamente «sabotatori burocratici », come li ha definiti sempre Cassese, il quale racconta di un noto capo di gabinetto – forse il suo quando fu ministro della P.A. – contrario a certi cambiamenti nell’amministrazione previsti da una legge appena approvata: «Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge». Ne sanno qualcosa Mario Monti e Enrico Letta che hanno lasciato in eredità 852 decreti necessari per rendere operative le norme varate dai loro governi, scritte peraltro come sempre in ostrogoto, il burocratese che solo i mandarini ministeriali sanno interpretare.
Sono in tutto 3,2 milioni i dipendenti statali e costano 165 miliardi. Pochi credono davvero che il giovane Matteo con la candida Madia possa essere capace di condurli all’efficienza o addirittura a ridurli di 10 mila, cominciando dai capi (e di sfoltire le migliaia di leggi e leggine), per assumerne 1.000 meno adusi ai vicoli oscuri della giurisprudenza e più capaci di adattarsi al nuovo. Lodevole velleità, ma Matteo Renzi deve sapere che “la madre di tutte le battaglie” è contro una mostruosità autorigenerante che Robert King Merton descrisse come un «circolo vizioso disfunzionale» che vive di
«incapacità addestrata».
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“ROMANZIERI IN UFFICIO”, di LUCIANO VANDELLI
Burocrate. Parola che sa di monotonia, grigiore, mancanza di ogni genialità o fantasia. Eppure… eppure è proprio tra le file dei funzionari, che troviamo figure come il console Stendhal, i ministeriali Maupassant, Puskin e Gogol, i doganieri Melville e Hawthorne, l’impiegato comunale Verlaine, il prefettizio Collodi, il cancelliere Stoker, il bancario Svevo o, per venire a casi più recenti, il postino Bukowski, il bibliotecario Borges, il diplomatico indiano Swarup o il funzionario dell’Agenzia delle entrate David Foster Wallace. Autori che dal pubblico impiego hanno tratto non solo uno stipendio (più o meno modesto), ma anche idee, caratteri, ambienti, vicende che hanno ispirato capolavori. Dove il contesto burocratico — con le sue mediocrità, lentezze, opacità — diviene metafora del mondo.
Bei tipi, si dirà; gente che invece di fare il proprio lavoro si dedicava a divagazioni. Certo, mi rendo ben conto delle critiche cui tutto ciò si presta. I burocrati non godono di buona stampa; e ricordarne ora persino meriti culturali può sembrare una vera e propria provocazione. Eppure, anche e particolarmente tra questi scrittori non sono mancati impiegati- modello. Come Kafka, per ricordare soltanto il caso più noto: funzionario dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, autore di relazioni tecniche e pareri giuridici
di alta qualità, fortemente impegnato a contrastare ogni elusione dell’obbligo di garantire ai lavoratori le più elementari garanzie assicurative previste dalle prime regole del neonato sistema di welfare. E che a questo scopo percorreva faticosamente la Boemia, nonostante la malattia che lo tormentava, per compiere ispezioni in fabbriche dove operai lavoravano senza alcuna sicurezza, tutela, limiti di orario. Con una generosità e una dedizione che gli procurarono unanime stima e continui miglioramenti di qualifica, nonostante la sua condizione di ebreo, oltretutto di lingua tedesca. Al funzionario Kafka, dunque, è ben chiaro il concetto che l’amministrazione è uno strumento indispensabile per la realizzazione dei diritti sociali; così come, dal verso opposto, il pericolo che essa si trasformi in quella oscura macchina di prevaricazione che si ritroverà nel
Processo
e nel
Castello.
D’altronde, neppure le questioni legate alle riforme amministrative rimangono estranee alle riflessioni della letteratura. E profondamente riformatore è il piano che elabora il protagonista del romanzo di Balzac
Gli impiegati,
funzionario integerrimo e competente che da tempo riflette sulle ragioni della crescente disistima della società nei confronti dell’amministrazione pubblica. Un piano di impianto ampio e ambizioso che, tra l’altro, prevede: a) una revisione del personale, basata sulla riduzione del numero degli impiegati, sulla valorizzazione di giovani meritevoli e sul contrasto alla demotivazione diffusa tra i dipendenti pubblici; b) la riorganizzazione dei ministeri, attraverso accorpamenti in poche, ampie strutture; c) la soppressione delle amministrazioni divenute inutili, con estinzione delle relative voci di bilancio; d) l’aggregazione di funzioni affini in capo alle medesime strutture; e) privatizzazioni e liberalizzazioni, dato che lo Stato possessore di imprese costituisce “un controsenso amministrativo”, impegnando semmai risorse pubbliche per sostenere le imprese; f) un riordino del fisco, accorpando e semplificando i diversi tributi, e valutando le ricchezze individuali attraverso una serie di indici (numero dei domestici, cavalli e carrozze di lusso, qualità della residenza, ecc.). Siamo nel 1824; eppure, le ipotesi non sembrano così obsolete…
La Repubblica 27.02.14
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