In occasione nel dibattito televisivo tra i candidati alla segreteria del Pd il nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi indicava nella ricerca, nell’istruzione e nella cultura le risorse da valorizzare, cioè i settori su cui avrebbe investito politicamente per stimolare l’azione del governo, allora presieduto da Enrico Letta. Anche nel chiedere al Parlamento la fiducia ha caricato la scuola e la cultura di un valore socioeconomico nuovo per un Paese che, proprio per aver ignorato il valore dell’istruzione, della ricerca e della cultura negli ultimi decenni è vertiginosamente retrocesso rispetto ai parametri che contraddistinguono la dinamicità produttiva e sociale di una democrazia vitale. Chi ha governato l’Italia negli ultimi 30 anni e più sembra fosse all’oscuro che i livelli d’investimento in istruzione, ricerca e cultura sono i più predittivi (più delle risorse naturali) della capacità di un sistema economico e politico di migliorare il benessere sociale. In termini non solo di reddito pro capite, ma anche di tasso di disoccupazione, di eguaglianza, di salute e di felicità percepita. Perché si traducono in un maggior numero di cittadini con laurea e dottorato, in istituzioni accademiche efficienti e competitive, quindi in grado di attrarre finanziamenti internazionali, in brevetti e sistemi industriali tecnologicamente avanzati, in maggiore consumo di cultura (cinema, teatro, quotidiani, mostre, musei… ): insomma, rendono una nazione intelligente, cioè capace di far fronte o anticipare gli imprevisti dovuti ai cambiamenti degli scenari economici e politici. Renzi prende in mano il Paese che in Europa ha una delle più basse percentuali di laureati (la più bassa tra 30 e 35 anni ): poco più del 20%, che è meno della metà di Gran Bretagna o Francia e lontana dalla media dell’Unione Europea (35%). E’ di pochi giorni fa il dato che registra un calo di 90 mila unità nel numero di immatricolati nel 2013-14 rispetto al 2003-4. Da questa crisi economica e da questo disinteresse per lo studio derivano la diffusione della corruzione, dell’evasione fiscale, delle truffe, del gioco d’azzardo, della criminalità organizzata, oltre che dei ciarlatani, giacché il livello d’istruzione (e la qualità del sistema educativo) di un Paese è anche predittivo dell’etica pubblica che caratterizza la convivenza sociale. Il nostro sistema educativo è intorno al 70° posto (su 148 posizioni), secondo il World Economic Forum. E’ vero che esportiamo cervelli, ma le nostre scuole e università sono alla canna del gas, come conseguenza di inadeguate riforme e scarsi investimenti, cioè per la mancata valorizzazione del ruolo sociale di insegnanti e docenti, che sono i meno pagati (anche a causa dei perniciosi corporativismi e degli eccessi di tutela sindacali), e per il degrado delle strutture scolastiche e universitarie e per i tagli irresponsabili e populisti ai finanziamenti per la ricerca e l’università. Le università si stanno spopolando di ricercatori e sono abitate da docenti demotivati e catturati nei gironi infernali di una burocrazia asfissiante e di procedure di reclutamento e valutazione formalistiche e largamente disfunzionali. Sono poche le università o i dipartimenti che si distinguano per comportamento virtuosi, mentre sono ancora troppe le sacche di personale scarsamente attivo o spregiudicatamente volto al proprio interesse personale, ancora attraverso la spartizione di posti con concorsi pilotati. Del resto, una mentalità meritocratica (al di là di quel che si voglia intendere con questa ambigua parola) non si innesta dall’oggi al domani su una tradizione secolare familistica e clientelare. Le prospettive di successo del nuovo governo nell’invertire il processo di declino dell’Italia non dipenderanno da generiche riforme del sistema politico, se non si sceglie anche di investire da subito e su tempi lunghi per migliorare la qualità del capitale umano o immateriale, che oggi si chiama «cognitivo », prevedendo anche sanzioni laddove la scarsa «performance» o le cattive abitudini la facciano da padrone. Investire sul capitale cognitivo – che nelle società e nelle economie fondate sulle conoscenze è costituito principalmente da competenze scientifiche e tecnologiche, cioè da università e gruppi di ricerca internazionalmente competitivi oltre che da imprese innovative – significa destinare risorse, alleggerire la burocrazia e usare la leva fiscale per promuovere gli investimenti in formazione e ricerca, ma anche nello studio e nella valorizzazione del patrimonio storicoartistico e paesaggistico. La comunità scientifica e accademica deve premere su un governo che intende ridare dinamicità al Paese, indicando gli interventi strutturali necessari e richiamando la discussione pubblica a quella concretezza dei fatti che Renzi dice sarà la cifra operativa del suo governo. Ecco perché «Tuttoscienze» dedicherà i prossimi 4 articoli ad altrettanti grandi temi, incentrati sull’università e sulla ricerca. L’idea è raccogliere la sfida del nuovo premier per un’agenda delle più urgenti riforme su Lavoro, Pubblica Amministrazione, Fisco, declinandola sulle questioni scientifiche. Eccole: 1) i contratti per i ricercatori e l’organizzazione dell’università, 2) l’abilitazione nazionale e i concorsi accademici, 3) le agevolazioni per la ricerca, 4) la semplificazione burocratica.
La Stampa 26.02.14