Immaginiamo una festa con un centinaio di studenti, tutti del secondo anno delle superiori. Venti di loro non sanno l’italiano. No, non è una festa cosmopolita con quindicenni che arrivano da tutto il mondo. Si tratta di adolescenti italiani, un quinto dei quali ha problemi con la lingua madre. Un dato evidenziato dalle ultime rilevazioni Pisa, ma curiosamente passato sotto silenzio (si tratta dell’indagine internazionale promossa dall’Ocse per valutare il livello di istruzione degli adolescenti dei principali paesi industrializzati). Naturalmente il fenomeno non è uniforme sul piano geografico e sociale. «È drammatica la distanza tra i licei del Nord-Est e gli istituti professionali del Mezzogiorno», dice Luca Serianni, insigne storico della lingua e autore di saggi sull’insegnamento dell’italiano nelle scuole (L’ora d’italianoe Leggere scrivere argomentare, entrambi pubblicati da Laterza; e con Giuseppe Benedetti Scritti sui banchi, Carocci). Ma cosa significa non sapere l’italiano? Serianni pesca tra i quotidiani degli ultimi giorni. «Alla fine delle scuole superiori un ragazzo dovrebbe essere in grado di capire un articolo di fondo».
E invece?
«E invece molti arretrano davanti alle prime parole astratte. Parole come “esimere” o “desumere”, che sono mattoni fondamentali per la costruzione di un discorso argomentativo. O parole meno usuali come “facezie”, che possono dare alla frase una connotazione ironica. O, guardi qua, “deflagrante” e “propedeutico”: chi può capirlo? Per non dire di “pàupulo”: si tratta del verso del pavone, ma ho dovuto consultare il vocabolario anche io».
Sta dicendo che i giornalisti dovrebbero scrivere in modo più chiaro?
«No, i giornali offrono una pluralità di registri linguistici che tutti i diciottenni scolarizzati dovrebbero essere in grado di padroneggiare. Ciò significherebbe molte cose. Essere informati su argomenti ritenuti essenziali. Individuare una linea dell’articolista ed eventualmente dissentirne. Cogliere le risorse espressive messe in atto da chi scrive: paradosso, satira, indignazione».
In realtà i test Pisa sono meno impegnativi di un editoriale. Prendiamo la tabella sul vaccino contro l’influenza: non richiede finezze interpretative.
«Sì, si tratta di un testo trasparente, con poche subordinate e nessuna parola desueta. È preoccupante che non l’abbia capito tra il 33 e il 40 per cento dei quindicenni meridionali. Forse gioca anche il fattore dell’ansia, comprensibile in ragazzi alle prese con i test».
Qual è il problema più grave nell’italiano scritto degli adolescenti?
«Il deficit principale non è l’ortografia, su cui la scuola insiste molto. Un problema ricorrente è la violazione della coerenza testuale, che è poi l’incapacità di argomentare gerarchizzando le questioni trattate. Anche nei temi di intonazione intimistica sorprendono le frasi prive di senso compiuto. Mi viene in mente il tema di un’alunna quattordicenne di un liceo pedagogico. “Noi ragazze siamo molto diverse dai maschi… perché noi cerchiamo sempre l’abbraccio, il bacetto che ci fa sentire al sicuro da tutte le cose che ci sembrano brutte. Al contrario i maschi…” e qui mi sarei aspettato: “sono insensibili”, “pensano soprattutto al sesso”. Niente di tutto questo. “Al contrario i maschi cercano di dare il meglio di loro, ma alla fine non ci riescono”. La ricostruzione dello specifico maschile s’è perduta per strada…».
Forse si può intuire, ma certo è detta male.
«Le cose certo non migliorano con i temi su questioni sociali. Questa volta siamo in una quarta ginnasio, alle prese con un tema su “L’uomo e l’ambiente”. Scrive un ragazzo: “Secondo me si dovrebbe fare la macchina ad acqua ed elettricità per guarire l’ambiente, ma è solo che i politici non vogliono, perché finché c’è il petrolio che è l’unica fonte di energia esistente e la più sfruttata”. Lasciamo perdere tutti gli errori sintattici e lessicali. Quel che davvero non va è la storia della macchina ad acqua, con il facile qualunquismo contro la politica. Siamo sicuri che, diventato adulto, il nostro ragazzetto non sarà tra quelli pronti a giurare sul metodo Stamina?».
Ma in questo caso la lingua è solo parte del problema.
«È una parte essenziale. Conoscere la propria lingua – per tornare alla domanda iniziale – significa padronanza del ragionamento e delle risorse espressive più adeguate per illustrarlo. Tenga conto che un bambino italofono si affaccia alla scuola elementare con un dotazione di 2000 parole, che sono quelle che ti permettono di sopravvivere: il 90 per cento dei discorsi prodotti comunemente dagli adulti. Alla fine della scuola dell’obbligo, questo patrimonio dovrebbe essere molto più ricco».
Cosa non va nell’insegnamento dell’italiano a scuola?
«Si insiste troppo sulla teoria grammaticale, specie nella scuola media e nel biennio. Talvolta si sfiora l’ossessione su nozioni di analisi logica del tutto inutili: è davvero fondamentale distinguere il complemento di compagnia dal complemento d’unione? Bisognerebbe soffermarsi di più sulla componente semantica, permettendo in questo modo di affinare la padronanza lessicale. E poi scrivere bene implica leggere bene. E leggere bene significa andare oltre il testo letterario, che pure io amo molto».
Più saggistica e meno Dante?
«Dante è fondamentale, ma nel triennio delle superiori bisognerebbe leggere anche una rivista come Limes, ossia articoli di geopolitica e sociologia, storia economica e storia della scienza. Brani che possano offrire modelli di organizzazione linguistica del pensiero complesso. Paradossalmente questa operazione è più facile negli istituti tecnici che non nei licei, in cui è tuttora centrale il percorso letterario, com’è giusto che sia. Mi rendo conto che rinnovare l’impostazione didattica nelle quattro ore del triennio liceale è alquanto difficile».
Ma l’italiano si può studiare con metodi mutuati dall’apprendimento di lingue straniere?
«In qualche caso sì. Mi è capitato di proporre esercizi in cui si richiede allo studente di integrare il testo con la parola mancante, oppure di individuare l’intruso secondo le modalità dell’enigmistica. Alcuni vocaboli sono davvero stranieri nell’orizzonte linguistico e culturale di un adolescente. Se prendo un vecchio scritto di Tommaso Padoa Schioppa, m’imbatto in parole come “lapidario”, “antinomia”, “conscio”, “blandire”, “anomalo”, “convenzione”. Forse bisognerebbe scegliere un elenco di parole da salvare, proponendole ai ragazzi come si fa con i vocaboli di un’altra lingua».
Siamo già a un livello avanzato.
«Sì, prima occorrerebbe cimentarsi con esercizi più pedestri. Come il riassunto, genere che prediligo: verifica la comprensione, educa alla sintesi correggendo la tendenza alla verbosità e aiuta a selezionare le notizie più importanti. La sua pratica andrebbe estesa oltre la scuola media. Ed è più utile del tema generico, come l’esempio che le ho appena fatto sull’inquinamento: anche io in quei casi non saprei cosa scrivere, se non ovvietà sostenute con fervore retorico. E per la correzione, suggerirei ai professori anche la matita verde».
Nel senso?
«Va bene il rosso e il blu, ma evidenzierei con il verde la scrittura più espressiva e meno scontata. Anche per evitare di trasformare il compito in un camposanto pieno di croci».
I nostri adolescenti hanno problemi con l’italiano pur essendo costantemente immersi nella scrittura dei social network. Certo, si tratta di una lingua diversa.
«Diciamo che è un italiano diverso da quello argomentativo. È però sempre un aspetto di scrittura, che non interferisce con l’altro codice. Sicuramente non fa danno. E favorisce il gioco di parola, che è pur sempre un esercizio linguistico».
In un libro recente Si dice? Non si dice? Dipende Silverio Novelli teorizza un italiano tridimensionale: quello del sì (bisogna dire così, facciamocene una ragione), quello del no (così è vietato), e quello del «dipende» (territorio immenso che include il digitale).
«Nessuno di noi parla o scrive sempre la stessa lingua. Quando faccio lezione non dico mai “chi se ne frega”, cosa che mi capita di dire a casa. Anche se i miei studenti – beata ingenuità – ritengono che sia un’ipotesi del tutto impensabile».
La Repubblica 26.02.14