Dieci anni: nel febbraio del 2004 il parlamento italiano votò e legiferò su una materia che nutriva la vita e le speranze di milioni di persone: la procreazione assistita. Quella legge ha un numero identificativo: 40. Ha madri e padri da cercare in un brodo culturale che colloca l’Italia abbastanza indietro nella classifica della modernità e dell’umanità, anche se chi volle e difese quella legge aveva in bocca le parole più struggenti (e le irrobustiva con dati spesso falsi, e le impressionava di paure medievali). In quegli anni per le immonde leggi che salvavano uno (uno solo, Berlusconi, nelle intenzioni, e molti altri accidentalmente) si disse: leggi vergogna. Questa legge aveva un numero, molti fieri oppositori, molti indefessi difensori, un po’ di gente che raccolse firme per un referendum che non vide il quorum nemmeno da lontano (intorno al 25%), un legislatore succube di chi vedeva la vita ovunque (negli embrioni, intestatari di diritti, nel corpo di Eluana) e spaventato da chi voleva crescerla nelle coppie con problemi di fertilità. Ma era una legge vergognosa.
Sono passati dieci anni. Nonostante il referendum fallito, quella legge così rattrappita, nata vecchia, che impediva perfino la diagnosi pre-impianto, è stata “rifinita” e addolcita da ripetuti interventi dei giudici, stimolati dai cittadini, dalle associazioni, dai medici (non dalla politica, che discute ma sostanzialmente non c’è, a parte la correzione sulla diagnosi pre-impianto nel periodo del governo Prodi, quando già i tribunali si erano messi in moto). Ventotto (28) processi, qua e là, nei tribunali italiani e alla Corte europea di Strasburgo (Italia condannata per aver violato, con i suoi precetti, due norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo). La Corte costituzionale ha bollato come illegittimi il limite di produzione di soli tre embrioni e l’obbligo di «un unico e contemporaneo impianto».
Mentre questi interventi raddrizzavano un po’ la legge 40, cominciava e fioriva il cosiddetto «turismo procreazionale» verso i paesi europei dove le leggi consentono più possibilità alla coppia con problemi di fertilità (condizione che turba ogni anno50-70mila nuove coppie) e dove giocoforza le tecniche di fecondazione assistita e le stesse apparecchiature dei laboratori biologici sono più all’avanguardia rispetto all’Italia: circa il 50% delle coppie che decidono di avere un figlio con la procreazione assistita, parte. Per la Svizzera, la Spagna, la Grecia, il Belgio, la Repubblica Ceka. È dimostrato che queste mete estere vengono scelte anche per prestazioni e trattamenti ormai garantiti anche dalla legge italiana (conservazione degli ovociti, fecondazione omologa, stimolazione ovarica): se la legge spagnola dal 1988 regola la donazione di ovociti e di sperma, è ovvio che la ricerca abbia potuto lavorare con maggiore profitto su questo tema e forse su tutta la materia. La fecondazione eterologa – semplicemente: un donatore è esterno alla coppia – è la frontiera da conquistare in Italia e resta ancora il movente principale di chi parte. Per capire: così possono diventare madri le donne portatrici di malattie genetiche, quelle che sono totalmente prive di ovuli, le pazienti oncologiche trattate con chemioterapici, quelle che soffrono di ovaio policistico, di endometriosi, di menopausa precoce.
La perdita di fiducia verso il nostro Paese è un danno che è possibile riparare, che già è tamponato dalle sentenze suddette (e infatti i numeri italiani tornano a crescere) e su questo s’impegnano anche i giovani ginecologi italiani che si sono “radunati” a Ferentino per spiegare parole nuove, parole difficili, criopreservazione, vitrificazione, che è il linguaggio loro ma è anche il racconto di una società. Questo Corso di medicina della riproduzione è stato organizzato da Valentina Berlinghieri, Antonio Di Cioccio e Matteo Buccheri, medici – appunto – giovani ma già fortificati da esperienze estere (Buccheri lavora ancora a Barcellona, alla clinica Eugin, assai bazzicata dai nostri connazionali, Belringhieri è al Cermer di Villa Mafalda, Roma mentre Di Cioccio è all’ospedale San Paolo di Civitavecchia). Gli interventi avevano il pregio di tener presente la realtà, di rivolgersi a al quadro storico e sociale. L’Italia è il Paese europeo dove è più alta l’età della mamma che partorisce il primo figlio: 32 anni. I motivi sono intuibili, la precarietà lavorativa è al primo posto (ma ce ne sono altri). Quindi “congelare” una gravidanza in età fertile per poi impiantarla in età più adulta è un’opportunità sociale in un Paese a bassa tasso di natalità. Questo è un pezzo di legge 40 che è stato abbattuto, informare le coppie – tramite anche il lavoro dei medici di base – su come fare, quando, dove, è importante. Il congelamento degli embrioni evita alla donna di doversi sottoporre nuovamente all’iperstimolazione ormonale, che è dolorosa fisicamente e psicologicamente. Certo, il legislatore deve regolarizzare l’ampia casistica, fissando l’età “massima” per congelamento e impianto, evitando un futuro di mamme-nonne. Ma l’unica legge esistente, seppur rammendata, è sempre quella.
Nuove e ampie sono anche le tecniche per stimolare la fertilità. Anche queste sono state presentate. Ma resta quel dato Istat: 70 mile coppie ogni anno tentano la fecondazione assistita, il 40% delle volte per un problema di lei, il 30% è un guaio di lui, nel 30%dei casi è impossibile sapere cosa non funziona. A quel punto due persone si muovono, incontrando spese (che si moltiplicano, quando si è costretti al viaggio all’estero), frustrazioni, illusioni e delusioni, perché il rapporto fra trattamenti e gravidanze portate a termine è attorno al 20%, ma è una media che mescola buone percentuali “giovanili” con altre più avare, sopra i40anni,quando la ricerca della maternità è difficile per “colpa” dell’invecchiamento ovarico, ma nient’affatto impossibile: solo il 35% delle over 40 non ha chance, o meglio: non ne ha in un Paese dove la fecondazione eterologa è vietata.
L’Unità 24.02.14