Nello scorrere il lungo elenco di emergenze che raccontano la crisi del sistema produttivo italiano, il nuovo ministro del Lavoro avrà forse la tentazione di mettersi le mani nei capelli. Da dove cominciare? Tra le centinaia di vertenze aziendali e le altrettanti ricerche macroeconomiche che giacciono sul suo tavolo, il neoincaricato Giuliano Poletti troverà anche il XIV Rapporto sulla formazione continua realizzato dall’Isfol per conto del dicastero che presiede. E che finora, complice il delicato passaggio di governo, non ha ricevuto l’attenzione che merita. Perché descrive un’Italia agli ultimi posti in Europa per capacità di formare i propri lavoratori, di innovare i processi di produzione e di aggiornare le competenze professionali. Dunque, in ultima analisi, un’Italia che trascura uno degli strumenti chiave per superare la recessione.
I DATI DEL RAPPORTO Tra la popolazione adulta di età compresa tra i 25 e i 64 anni, infatti, solo il 6,6% ha partecipato nel corso del 2012 ad iniziative di formazione o istruzione. Un dato che, se rappresenta comunque un passo avanti rispetto al 5,7% dell’anno precedente, resta nettamente al di sotto della media europea, pari al 9%, e di gran parte dei Paesi più industrializzati. Basti citare il 7,9% della Germania, il 10,7% della Spagna, il 15,8% del Regno Unito e il 16, 5% dell’Olanda. Senza dimenticare gli inarrivabili Paesi scandinavi, con la Svezia al 26,7% e la Danimarca al 31,6%. Così, purtroppo, non è in Italia, dove ogni anno mancano all’appello circa 100mila occasioni di lavoro per mancanza di persone qualificate. Sfogliando i dati della ricerca, non mancano certo le contraddizioni. La partecipazione alla formazione appare più accentuata per le femmine (al 7%, contro una media Ue del 9,7%) rispetto ai maschi (al 6,1%, contro una media Ue dell’8,4%), nonostante le donne continuino a riscontrare molte più difficoltà degli uomini nell’accedere al mercato del lavoro. E un discorso simile vale per i giovani tra i 25 e i 34 anni, che vantano una quota pari al 13,6%, e che restano ai margini pur essendo i più istruiti e formati. Non stupisce che le persone con un maggior grado di istruzione abbiano più facile accesso ad iniziative di formazione: tra tutti i laureati la probabilità di essere coinvolti in percorsi di formazione è di 1 su 6, tra chi ha un titolo di scuola media si parla di ben 15 milioni di adulti solo di 1 su 61. Un distacco nei processi formativi che rischia di approfondire le distanze di natura sociale ed economica fra i diversi segmenti della popolazione, visto la forte presenza in Italia di persone con bassi livelli di istruzione.
LA SCURE SUI FONDI Eppure, in un momento cruciale come questo, quando molte imprese sono in bilico tra soccombere alla crisi o rischiare in innovazione per restare in attività, anche l’anno scorso i fondi per la formazione sono stati bruscamente tagliati. Con una procedura non del tutto ortodossa, a primavera il governo Letta ha tolto 328 milioni di euro ai fondi interprofessionali per finanziare la cassa integrazione in deroga. Esigenza innegabile, ma resta da registrare il fatto che si è scelto di andare a pescare le risorse tra quelle versate all’Inps da aziende e lavoratori per la formazione. Mediamente, la spesa complessiva annuale ammonta circa a un miliardo di euro, ma è suddivisa in tante filiere e gestita da tanti soggetti diversi tra fondi europei, fondi interprofessionali, enti locali e privati che non sono rari gli scandali e gli sprechi di risorse. Quando fatta seriamente, però, la formazione funziona. Lo dimostra l’esperienza di Fondimpresa, il fondo interprofessionale promosso da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, che conta 166mila aziende aderenti con più di 4,5 milioni di lavoratori occupati, e che dal 2007 al 2013 ha finanziato corsi di formazione per 1,7 miliardi di euro ed oltre 2,8 milioni di persone, di cui oltre 100mila cassintegrati. Il 2013 è stato l’anno dei progetti di riconversione industriale: un’azienda di Napoli che faceva componenti per aerei per Alenia ha deciso di alzare il tiro ed ora produce piccoli veivoli in proprio, una piccola fabbrica calabrese è passata dalle forniture per l’edilizia ai materiali rotabili, gli ex addetti della Sangiorgio hanno virato dagli elettrodomestici alle bobine elettromagnetiche, ma c’è anche stato chi ha fatto un passo ancora più lungo, dai sigari ai carrelli portavivande per aerei. Tutti progetti sostenuti e resi possibili da iniziative di formazione continua del personale. Da ricordare anche il bando riservato ai lavoratori in mobilità: il 55% di chi vi ha partecipato (circa 8mila persone) è riuscito a trovare un’altra occupazione. Eppure la formazione continua a rivestire in Italia una funzione ancillare: secondo i dati Isfol, solo il 5,3% delle imprese con più di 10 addetti sono molto impegnate sia sul piano dell’innovazione e della formazione, e nel 2012 solo il 28,1% ha svolto attività di formazione, contro il 34,5% dell’anno precedente. «Si tratta di un circolo vizioso» commenta Fabrizio Dacrema, responsabile formazione della Cgil, «causato da un sistema produttivo poco competitivo che non investe in innovazione». Non a caso, il 39% delle imprese che hanno fatto formazione ha fatto anche innovazione di prodotto. Per rompere questo circolo, ci vorrà «l’azione congiunta di politiche industriali tese ad innovazione e investimenti in conoscenza, e la definizione di un sistema nazionale di certificazione delle competenze, che le riconosca e le valorizzi, accompagnato da un sistema organico di reti territoriali dell’offerta formativa che ponga fine alla frammentazione e agli sprechi».
L’Unità 24.02.14