IL 28 maggio 1974, a Brescia, alle 10.12, l’urlo bestiale di un’esplosione interruppe il comizio del sindacalista Franco Castrezzati che parlava alle migliaia di convenuti in piazza della Loggia, nonostante la pioggia, per manifestare pacificamente contro l’escalation di violenze di marca neofascista che laceravano la città e tutto il nord Italia da anni.
Una bomba posta da mani ignote uccise Livia, Alberto, Clem, Giulietta, Luigi, Vittorio, Euplo, Bartolomeo (restituiamo per una volta alle vittime la semplice umanità dei loro nomi) e ferì un centinaio di altre persone. Quasi quarant’anni dopo, giovedì mattina, nella mastodontica architettura umbertina del “palazzaccio” della Cassazione romana — pare fatto apposta per farti sentire un moscerino davanti al Moloch della Giustizia —entravano Manlio Milani, sopravvissuto, che in piazza perse la moglie Livia, Giorgio Trebeschi, il figlio di Alberto e Clem, giovani insegnanti impegnati nel sindacato, reso orfano a un anno e mezzo, con alcuni dei feriti e una squadra di avvocati di parte civile, in attesa dell’undicesimo giudizio. Li ho visti entrare tesi, curvi come un moderno Sisifo sotto il macigno del pensiero che il terzo grado del terzo processo per l’eccidio (che in appello, nell’aprile 2012, aveva visto assolti tutti gli imputati) poteva calare come una lastra tombale su tutta la vicenda, consegnandola all’impunità. Ma ieri pomeriggio ne sono usciti con passo più lieve, piangendo, per una volta, lacrime di emozione. La Quinta sezione penale ha annullato con rinvio due assoluzioni, due posizioni chiave: torneranno sotto processo Carlo Maria Maggi — questo il dato più clamoroso — leader indiscusso per il nord est della struttura clandestina gruppo neonazista Ordine Nuovo, che aveva depositi di armi ed esplosivi e propugnava un programma di stragi e attentati per sovvertire l’ordine democratico, l’uomo che dopo la bomba del 28 maggio disse ai suoi accoliti «Brescia non deve rimanere un fatto isolato», e uno dei suoi giovani scagnozzi, Maurizio Tramonte, intraneo al gruppo e al contempo informatore del Sid.
Dovremmo condividere tutti il sussulto di speranza che li ha rianimati. La Cassazione, ieri, ha risposto a tutti coloro che s’interrogano sul significato di processi celebrati a decenni di distanza dal fatto, a tutti coloro che si arrendono, scettici, ai dispositivi delle sentenze d’assoluzione sui cosiddetti “misteri d’Italia”, senza andare a leggere le centinaia di pagine di motivazioni che li accompagnano. La Cassazione ha riaperto, in parte, i giochi, perché le motivazioni dell’appello del 2012 contenevano fatti pesanti come macigni, come richiamato dal procuratore generale d’udienza Vito d’Ambrosio in una requisitoria dura e limpida. L’esplosivo scoppiato in piazza della Loggia veniva dallo scantinato della trattoria veneziana “Allo scalinetto”, a due passi da San Marco, il deposito di Maggi; l’ordigno fu predisposto e trasportato in un covo veronese, da cui partì alla volta di Brescia, passando per Milano, ad opera di due sottoposti del Maggi, entrambi defunti, l’ordinovista Marcello Soffiati e l’armiere del gruppo, Carlo Digilio, già condannato per analogo ruolo svolto nell’organizzazione della strage di piazza Fontana. Questi fatti, insieme ai proclami stragisti di Maggi, impegnato, al tempo della bomba, nella riorganizzazione clandestina delle sue truppe (Ordine Nuovo era stato messo fuori legge nel 1973, in applicazione della “legge Scelba”, per ricostituzione del partito fascista), alle note informative dei servizi segreti, a lungo occultate (a causa di colpevoli depistaggi del reparto di controspionaggio del Sid capitanato da Gian Adelio Maletti, anche lui già condannato nei processi per la strage di piazza Fontana, per aver aiutato la fuga di alcuni imputati) entrate nel processo solo negli anni Novanta, alle brucianti intercettazioni delle conversazioni tra due reduci della destra eversiva
(risalenti al 1995), allarmati alla notizia che Digilio aveva cominciato a collaborare con la giustizia, rappresentano una mole di indizi gravi, precisi e concordanti a fronte di cui l’assoluzione di Maggi — questo fanno intendere i giudici di legittimità accogliendo i ricorsi — non risulta sufficientemente motivata. Come pure difetta la motivazione dell’assoluzione di Tramonte. Imputato di concorso in strage, era stato assolto come semplice “infiltrato”: andrà rivalutato il ruolo da lui svolto nella preparazione dell’attentato, alla luce delle scottanti informazioni che forniva in tempo reale al Sid col nome in codice Tritone. I gravi fatti contenuti nella sentenza d’appello del 2012, quindi, non finiscono relegati nel deposito — pur importante — della verità storica. E forse si arriverà, fatto inedito, alla condanna per strage di un dirigente apicale di Ordine Nuovo. Il nuovo giudizio d’appello potrebbe arrivare prima della fine dell’anno.
È un verdetto importante, quello della Cassazione, per chi non si è mai rassegnato al fatto che i “plurimi atti abusivi” consumati dall’allora capitano dei Carabinieri Francesco Delfino nel corso delle indagini per il primo processo, e i depistaggi del Sid, fossero riusciti a garantire piena impunità agli stragisti. Maggi ha più di ottant’anni, non dispone delle ingenti risorse del miliardario Delfo Zorzi, che vive da anni in Giappone e ieri è uscito per sempre dal processo. Chissà che non decida, a fronte del nuovo rinvio a giudizio, di collaborare, finalmente, con la giustizia. Vogliono sapere la verità, le vittime, e i cittadini, non certo accanirsi contro un anziano medico in pensione. Ed è bello poter scrivere, oggi, che possiamo ancora sperare in una parola di giustizia degli uomini, per gli uomini, per i morti innocenti di piazza della Loggia.
La Repubblica 22.02.14
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