È un governo Renzi, e poco altro. Molte novità, poche personalità. Molte donne, finalmente, molti giovani. Una qualità politica non troppo diversa da quella del governo Letta, come conferma l’alternanza tra Padoan e Saccomanni. Una piattaforma ministeriale che dopo le avventure carismatiche e tecniche sembra dar vita ad un esecutivo leaderistico. Finita la stagione dei governi del Presidente nasce così un governo del Premier.
Il vero sforzo del Presidente del Consiglio è stato quello di non avere un vice, per formare un governo Renzi e non Renzi-Alfano. Questo risultato riduce l’anomalia di un capo della sinistra che guida un ministero con la destra, mentre l’alleanza di necessità proiettandosi sui quattro anni di legislatura diventa quasi una scelta, dunque una contraddizione per il Pd. Ma Renzi sembra puntare tutte le carte su se stesso, sulla sua energia politica, come se affidasse alla promessa di cambiamento il compito di sciogliere i nodi che la politica non sa sciogliere, compresa la scorciatoia scelta per arrivare a palazzo Chigi.
Con Padoan e con il pieno appoggio manifestato da Napolitano la linea di politica economica non cambia, ma con un esecutivo su sua misura Renzi si prepara a rinegoziare con l’Europa il rapporto tra crescita e rigore, anche sfruttando in prima persona la guida italiana del semestre europeo.
A questo punto, proprio la cifra “strumentale” del governo espone Renzi come non mai, su tutti i fronti. La responsabilità è totale, il rischio anche. L’acrobata è sul filo, da solo e senza rete. Auguriamoci che riesca: dopo restano solo i clown degli opposti populismi
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“Emma e gli altri, i Rottamati”, di FILIPPO CECCARELLI
Alzi la mano chi ricorda che faccia abbia il ministro, fino a ieri, Trigilia. Di nome fa Carlo. È un signore non brutto.
DALLO sguardo intenso dietro gli occhialetti tondi e la barba corta e ben curata. L’avevano piazzato in un dicastero dal nome misterioso: «Coesione territoriale».
Non si è assolutamente in grado di stabilire se abbia lavorato bene o meno, Trigilia. Secondo alcuni era tanto più bravo quanto più amante del lavoro compiuto in silenzio, lontano da ogni pubblicità. Nel tempo della proclamazione auto-telegenica – «ci metto la faccia» – magari lui sarà anche contento, ma da domani non lo si vedrà proprio più sui giornali o in tv.
Né più mai si vedrà Zanonato, che stava allo Sviluppo economico, e invece twittava a tutto spiano, come un forsennato, con tanto di foto di vita quotidiana e pure in ambito famigliare. Per stare più vicino alla gente, magari. In ogni caso tutt’altro che antipatico. Tra i migliori ricordi che lascia c’è senz’altro quello che lo vide accogliere con allegra sollecitudine la compagna di partito e attuale ministra, Marianna Madia, convinta che lui fosse alla guida del ministero del Lavoro. Zanonato la fece parlare e quando capì l’equivoco – lo scambio di persona configurandosi come il classico dispositivo della commedia – si avvicinò alla finestra indicandole, al di là della strada il palazzo dell’amministrazione allora guidata dal professor Enrico Giovannini.
Pure lui persona squisita e anche competente. Uno dei tanti tecnici. Comunque l’hanno fatto fuori. Non si dirà qui trombato, né rottamato, per non mancargli di rispetto, ma sacrificato sull’altare del ringiovanimento sessuato del governo Renzi. Un bel repulisti, non c’è che dire, ben 13 ministri non confermati.
Almeno in tv Giovannini non aveva poi l’aria di divertirsi troppo, a via Veneto. Veniva dall’Istat, che è un ottimo posto, poche settimane orsono affidato all’odierno titolare dell’Economia Padoan. Così Giovannini potrebbe tornare da dove veniva, forse pure con gioia, o sollievo, o rassegnazione o chissà.
La sorte degli ex ministri è segnata, ma poi varia da caso a caso, come il modo in cui ciascuno vorrà accogliere la fine di quell’esperienza. All’estremo del fairplay si colloca la reazione dell’udc D’Alia che del collega di partito che in qualche modo gli ha soffiato il posto, Gian Luca Galletti, ha detto: «Sono entusiasta della sua nomina, è un amico vero, sarà un grande ministro».
All’opposto già ribolle l’ira dei radicali per la caduta di Emma Bonino, la vera grande e forse anche nobile sconfitta di questa partita di potere. Lei in pratica ha detto solo: «Non ho nulla da dire». Ma oggi prima conferenza stampa e poi comizio, all’aperto, come nella tradizione di quel piccolo partito. Ma intanto è già partito il tuono di Pannellone, che ha 83 anni, ma anche per questo Renzi farebbe malissimo a sottovalutare. Ciò che è successo gli ha ricordato la fuga dei Savoia a Pescara, nella notte dell’8 settembre: «La
grande vittoria c’è – esplode il suo sarcasmo – la Bonino fatta fuori, i radicali fatti fuori, fatta fuori la storia radicale, socialista, azionista, liberale. Renzi ha ottenuto l’ideale per i partitocrati». E’ solo l’inizio.
La fine, per altri, era nella forza delle cose. Dopo l’affare Ligresti, ad esempio, la Cancellieri era quasi un miracolo che fosse ancora al suo posto; e lo stesso Quagliariello, con i suoi saggi portati in gita a Francavilla, in tutta franchezza non si capiva cosa fosse rimasto a fare su quella poltrona dopo che Renzi e Berlusconi, in mezzo pomeriggio, gli avevano tolto il fastidio delle Riforme. E anche Saccomanni, il tecnico dei tecnici, come tale era ormai compromesso. Appassionato del Belli, il più cupo e desolato poeta del potere, avrà di che riflettere sulla vanità dello stesso e dei suoi vistosi orpelli: «Preti, ladri, uffizziali, cammerieri,/ tutti co le crocette a li pastrani./ E oramai si le chiedeno li cani, dico che je le danno volentieri»…
Difficile anche valutare il lascito, in quel ginepraio incandescente che è l’Istruzione, della professoressa Maria Chiara Carrozza, anche lei così tecnica, così discreta, così poco «visibile». Ha augurato «in bocca al lupo» a chi le succede in viale Trastevere, troppo spesso bloccato da manifestazioni di protesta.
Un impeccabile tweet anche da Massimo Bray costretto che dice addio ai Beni Culturali: «Questa storia come tutte le storie ha una fine. Grazie al personale del ministero e ai cittadini che, come me, ci hanno messo cuore e passione». A curioso complemento dei social si segnala tuttavia un singolare bombardamento, fino a 4 mila messaggi fuori tempo massimo diretti al premier e preceduti da quella che suonava come icastica affermazione di principio: #iostoconbray.
Meno chiaro è che cosa abbia contribuito a stroncare non solo la personale esperienza di governo di Enzo Moavero, di cui si diceva che avesse gran credito a Bruxelles, ma addirittura l’esistenza stessa degli Affari Europei. Sparisce anche l’Integrazione e con questo finisce a casa, col giubilo dei leghisti, anche Cecile Kyenge. Che pure per il suo impegno stava quasi per rinunciare al matrimonio (poi tutto si è aggiustato).
Infine Mario Mauro che tra squilli di tromba, astuti generali, costosi F35 e indecifrabili scissioni post-montiane, ci aveva preso gusto. Pure troppo. A tempo debito la storia ricostruirà come è stato possibile che un ministro di peso e con entrature nell’associazionismo cattolico, Cl e dintorni, alla fine della giostra sia rimasto senza poltrona. C’è già chi punta il dito su Pierfurby Casini, che è nello stesso giro e starebbe tornando da quest’altra parte. Comunque faccende abbastanza loro, e tutto sommato non del tutto rilevanti per la collettività.
La Repubblica 22.02.14