«Muoio». Per scriverlo in ucraino sono sette caratteri in cirillico e uno spazio. Otto tocchi sulla tastiera del telefonino collegato a Twitter che Olesya Zhukovskaya, 21 anni, stringeva nella mano destra ieri a Kiev. Con la sinistra cercava di fermare il sangue che colava dalla gola raggiunta da un proiettile, scendendo a macchiarle la pettorina da infermiera volontaria, dominata da un’improvvisata croce rossa.
La sorte di Olesya è incerta. Non sappiamo se sia già morta o se ancora lotti per sopravvivere in un letto di ospedale in Ucraina. Quello che è certo è che il suo ultimo atto pubblico, cosciente, è stato inviare un «tweet». Ogni rivoluzione, in ogni epoca, ha i suoi simboli. Le rivolte del XXI secolo nascono sui social network e chi le combatte ha un istinto che è ormai nel Dna della generazione di Olesya: tutto va condiviso, compresa la morte.
La Rete, e i social media che l’hanno arricchita negli ultimi anni, non sono semplicemente nuovi mezzi di comunicazione. Sono luoghi, spazi di vita reale di uomini e donne, che si possono comprendere solo usando la categoria dell’esperienza.
Scrivere «io muoio» su Twitter agli amici, per Olesya è un gesto naturale. E’ l’esatto equivalente di scrivere «io amo, piango, rido, studio», come i suoi coetanei di tutto il mondo fanno miliardi di volte al giorno su Twitter, Facebook o WhatsApp. Non si tratta solo di raccontare in Rete qualcosa che mi sta capitando: la condivisione del gesto è ormai parte integrante del gesto stesso.
Le periodiche critiche ai social media come luogo di tutti i mali troppo spesso perdono di vista questa loro caratteristica di fondo. Eppure basterebbe indagare su come sono nati, per capire che la loro ricetta vincente non è legata alla tecnologia. Facebook non avrebbe mai avuto successo solo perché è un modo interessante di «catalogare» le amicizie. Funziona perché è il luogo stesso dove quelle amicizie avvengono.
Twitter è nato in una sera di pioggia a dirotto a San Francisco nel 2006, in un dialogo serrato tra due giovani creativi chiusi in auto a ripensare ai fallimenti della loro vita fino a quel momento. Noah Glass, il più estroverso tra i due, soffriva di profonda solitudine e voleva uno strumento per essere sempre in contatto con gli amici. Jack Dorsey, invece, era interessato all’idea di «status», a far sapere sempre, in qualsiasi momento, cosa gli stava accadendo.
La solitudine di Noah e l’egocentrismo di Jack, due sentimenti profondamente umani e per niente tecnologici, sono stati la miscela che ha dato vita a Twitter. E otto anni dopo hanno permesso a Olesya di lanciare il suo grido agli amici sulla Rete, che sono subito diventati migliaia di «followers»: «Io muoio», che è un modo disperato, terminale e umanissimo per dire «Io esisto».
La Stampa 21.02.4