Dunque Matteo Renzi ha calciato il suo rigore senza paura, come aveva annunciato. Ma ancora non sappiamo se è gol o se la palla è andata sopra la traversa. Per adesso il segretario del Pd ci ha messo la sua «smisurata ambizione» per licenziare Enrico Letta, ringraziandolo frettolosamente per il «notevole» lavoro svolto. La manovra è riuscita e la politica italiana è entrata in una dinamica vorticosa ed impensabile fino a pochissimo tempo fa.
Addirittura negata dallo stesso protagonista, Matteo Renzi, che ancora la settimana scorsa a chi gli chiedeva se stava lavorando per soffiare il posto al suo «amico» – secondo l’antico gergo democristiano – Enrico, rispondeva: chi me lo fa fare?
Ecco, questo è il punto: chi glielo ha fatto fare? Che cosa è accaduto in queste ultime ore per accelerare a tal punto gli eventi precipitati ieri nella più sfacciata dichiarazione di sfiducia subita da un presidente del Consiglio in carica? Come lo stesso Renzi aveva spiegato a «La Stampa» 48 ore prima, lui non è uno che si tira indietro: se mi danno un rigore io lo tiro. E infatti ieri pomeriggio Matteo ha messo i piedi nel fango, preso il pallone, lo ha sistemato sul dischetto e ha tirato. Ma chi aveva fischiato il penalty?
Scrive oggi «Le Monde» che gli italiani hanno tanti modi per definire le loro fantasiose crisi di governo quanti tipi di pasta in cucina. Facile scivolata sul luogo comune della patria degli spaghetti (manca il mandolino), ma la verità è che anche questa volta è difficile spiegare al mondo cosa sta succedendo nel nostro labirintico sistema politico. E visto che siamo a soli cento giorni dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo, se davvero Matteo Renzi guiderà il nuovo governo, dobbiamo constatare che in questa legislatura Ue sarà il quarto premier italiano ad aver fatto parte del Consiglio europeo. Un record.
Nei corridoi e negli uffici di Bruxelles ieri si guardava a tutto questo con un certo effetto di rinnovato spaesamento. Nessuno dei tre primi ministri succeduti a Berlusconi – lui sì sfiduciato dall’Europa – è arrivato a Palazzo Chigi per effetto di un voto popolare. Non Monti e non Letta. Renzi è il sindaco eletto di Firenze, che è stata la seconda capitale d’Italia, ma non dell’Italia. L’8 dicembre scorso è stato eletto segretario del Pd con due milioni di voti alle primarie, ma nemmeno il Pd è l’Italia e non è nemmeno il partito che ha vinto le elezioni politiche con un risultato tale da poter governare da solo.
Siamo al ritorno dell’eterna anomalia italiana alla quale nei palazzi di Bruxelles si guarda con attesa, vista l’aria che tira in Europa e l’annunciato vento populista ed euroscettico nel prossimo Parlamento. Questo Renzi che animale sarà? Che succederà nel Consiglio europeo, il tabernacolo dell’Unione, quando si chiuderanno le porte e capi di Stato e di governo resteranno soli a confrontarsi sui dossier? Superata la stagione dell’aneddotico Berlusconi, imprevedibile, ma spesso fuori dalle grandi partite di Consiglio, l’Italia ha vissuto la breve stagione di Monti, il professore capace di far lezione – ascoltato – anche alla Merkel. Poi avevano già fatto l’abitudine al giovane Letta, uno che sul metro dell’Europa aveva costruito la sua cultura politica e da politico secchione arrivava al palazzo di Justus Lipsius con i compiti fatti. E Letta stava sgobbando a preparare il semestre italiano (dal prossimo giugno) come la prova della vita, l’esame definitivo della sua maturità di leader. Al presidente del Consiglio Van Rompuy e al presidente dell’europarlamento Schulz (possibile futuro presidente della Commissione) aveva anticipato con passione e diligenza i temi e gli obbiettivi della presidenza italiana. E ora?
Si pensava insomma da quelle parti che dentro l’anomalia ormai forzosamente accettata di un capo di governo non eletto ma espresso come l’unico punto di equilibrio politico possibile di un Parlamento in stallo, l’Italia avesse raggiunto una sua stabilità. E che in essa si potesse finalmente immaginare di realizzare qualche riforma, a partire da quella elettorale che doveva restituire al più presto la fisiologica normalità democratica. E invece ecco la nuova eccezione che un politico esperto e prudente come Piero Fassino ha definito ieri la «necessaria discontinuità» in un clima politico che appariva da tempo rassegnato all’afasia. Lo sbrigativo Renzi l’altro giorno aveva fatto l’elenco dei soggetti con i quali il governo non sembrava più in grado di dialogare: i gruppi parlamentari, i sindacati, la Confindustria, l’opinione pubblica…
La logica della politica è spietata. Un’altra eccezione si apre nel segno dell’Italia. Era illusorio e sbagliato pensare che uno come Renzi avrebbe vivacchiato aspettando il suo turno. La natura della sua azione politica è la velocità. Il pallone è in volo. Se finirà in rete o alto sulla traversa lo scopriremo tra un po’.
da La Stampa