ambiente, cultura

"Un patrimonio si sbriciola in silenzio", di Gian Antonio Stella

Castelli, mura del Seicento e monumenti Il patrimonio italiano si sta sbriciolando Dalle fortificazioni di Palmanova ai bassorilievi della Galleria Umberto I a Napoli

Non sono venute giù, fermandoci il fiato, solo le mura di Volterra. La verità è che da settimane, un giorno dopo l’altro, vengono giù pezzi della nostra storia. Castelli medievali, antichi palazzi gentilizi, muraglioni, archi… Colpa dell’acqua? Sicuro: erano decenni che non pioveva tanto. Ma è troppo comodo maledire il cielo.
Troppo comodo scaricare sugli Dei altre responsabilità: l’incuria, la sciatteria, il disinteresse per la sana manutenzione quotidiana che nessuno gioca in campagna elettorale.
Gli ultimi a schiantarsi al suolo, rischiando di ferire i passanti, sono stati due pezzi del bassorilievo di uno degli archi dell’elegante (e ammaccata) Galleria Umberto I di Napoli, in faccia al teatro San Carlo. Uno di quegli archi sotto i quali, in una scena indimenticabile del film di Ettore Scola «Maccheroni», Marcello Mastroianni faceva conoscere a Jack Lemmon i piaceri irresistibili di un gigantesco babà con panna.
Più o meno nelle stesse ore, crollavano a Palmanova venti metri del «rivellino», una delle cinte fortificate della magnifica «città stellata» friulana. Una ferita. Tanto più che, dopo decenni di abbandono che avevano consentito agli sterpi di impossessarsi delle mura e agli alberi di affondare in profondità le loro radici tra i mattoni, la meravigliosa fortezza veneziana del 1593 edificata contro i turchi nella piana friulana all’incrocio tra l’antica via Julia Augusta e la Strada Ungheresca, è finalmente al centro d’un piano di recupero. Un’iniziativa bellissima basata, in mancanza di soldi, sulla generosità della Protezione civile, del Corpo forestale e dei volontari che da qualche tempo si sono messi d’impegno a ripulire le mura più antiche. «Non è un caso se lo smottamento ha riguardato uno dei rivellini che non sono rientrati nel piano di pulizia della vegetazione infestante», ha spiegato Francesco Martines, il sindaco cui va il merito di avere avviato il recupero: «Gli alberi e i fichi selvatici con le proprie radici hanno modificato i percorsi di canalizzazione fatti dai veneziani per far defluire le acque piovane e così quando piove i terrapieni si caricano d’acqua che non trova sfogo. Dove la vegetazione è stata rimossa e sono state collocate le reti di contenimento da parte del Corpo dei forestali, i danni sono stati evitati. Ma l’allarme è alto…».
In queste prime settimane del 2014, spiega, a Palmanova sono già precipitati 610 millimetri di pioggia, corrispondenti a 7 tonnellate d’acqua per ettaro. Un diluvio. Proprio la tenuta delle parti delle mura già restaurate, però, dimostra come siano determinanti le opere di manutenzione troppo spesso trascurate: «È necessario un piano di salvaguardia che impegni anche lo Stato, proprio in vista del percorso di candidatura Unesco, un riconoscimento per il quale ci stiamo spendendo molto tutti e che richiederà — come prevede la commissione di Parigi — la definizione di un piano di gestione per la conservazione del bene. Non vorrei che Palmanova diventasse un’altra Pompei…».
Un richiamo scontato. Dallo schianto della Scuola dei Gladiatori non c’è stata pace. Come spiega il presidente dell’Osservatorio patrimonio culturale, Antonio Irlando, in attesa che parta operativamente l’agognato piano di recupero, «crolli diffusi di intonaci decorati e parti di murature si susseguono quotidianamente in molte domus. Da tempo spieghiamo che per ogni crollo reso noto ve ne sono almeno nove, uno per ogni regione in cui è suddivisa Pompei, di cui non si ha notizia».
E se è vero, come ha scritto il New York Times , che «i crolli a Pompei sono diventati una metafora dell’instabilità politica e dell’incapacità dell’Italia di prendersi cura del suo patrimonio culturale», ogni pietra che si stacca dai nostri monumenti aggiunge nuovi elementi allo sconcerto che gli stranieri provano davanti all’inadeguatezza di chi ci amministra. Risuona nelle orecchie l’accusa del Guardian: «L’abbondanza di siti archeologici e culturali porta l’Italia all’indifferenza. La conservazione non si classifica tra le priorità di un Paese costellato di acquedotti, anfiteatri e altri siti di grande rilievo culturale».
Che sia costosissimo, e di questi tempi forse al di fuori della nostra portata, un gigantesco piano di recupero di ogni singolo tesoro che abbiamo, dalle Gualchiere di Remole al castello normanno di Maddaloni, dalla rocca di Sutera agli affreschi di Santa Maria Nova di Sillavengo, è vero. Ma certo l’elenco dei lutti culturali che hanno colpito il nostro patrimonio nelle ultime settimane e negli ultimi giorni è impressionante.
A Pozzuoli, racconta sul Corriere del Mezzogiorno Antonio Cangiano, è rovinato al suolo vicino a una stazione della ferrovia Cumana un grande frammento murario del complesso dello stadio di Antonino Pio che un tempo ospitava gli Eusebeia, giochi ginnici quinquennali sull’uso di Olimpia. A Stigliano, in provincia di Matera, è venuta giù l’ultima facciata del castello medievale danneggiata nel Seicento da un violento terremoto.
A Frinco, in provincia di Asti, è smottata verso le case una parte del maniero che da secoli domina il paese, dando ragione ai timori del sindaco che qualche settimana fa aveva denunciato il rischio di una frana pericolosa. A Roma è crollato un contrafforte di una torre delle Mura Aureliane, già colpite da un cedimento simile, non lontano, nel 2001. A San Vito Chietino un gruppo di famiglie è rimasto isolato dallo sbriciolarsi di un tratto delle mura di cinta di un castello risalente all’anno Mille. A Subiaco il maltempo ha fatto crollare parte del tetto della Rocca Abbaziale, meglio nota come la Rocca dei Borgia. A Spoleto sono venute giù due capriate e parti della copertura del complesso dell’anfiteatro. E altre mura antiche hanno ceduto, sotto le piogge di questi giorni, a Vignola, in provincia di Modena. Per non dire dei crolli nei centri storici di Taranto o alla Vucciria di Renato Guttuso, nel cuore di Palermo.
Troppi traumi, in pochi giorni. Troppi. L’unica speranza è che almeno questi aiutino i ministri, i governatori, i sindaci e tutti i cittadini a capire che, nell’attesa di faraonici e costosissimi megaprogetti di recupero, che mai potranno accontentare tutti, l’immobilismo è un suicidio. E che un minimo di decorosa manutenzione quotidiana, porti o non porti voti, è un dovere verso noi stessi e verso quei tesori di cui siamo, forse immeritatamente, i custodi.

da il Corriere della Sera

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