Mentre di continua a discettare sulla posizione modesta (per usare un eufemismo) che le nostre scuole occupano nelle graduatorie messe a punto in base ai risultati delle rilevazioni comparative dell’Ocse, non sembra suscitare altrettanto interesse la ricerca delle ragioni del malessere del sistema educativo. Tutti si affannano a dichiarare la centralità dell’educazione per lo sviluppo del Paese, ma pochi si sforzano di superare interpretazioni di breve momento per individuare le radici di un malfunzionamento sempre più evidente. Accade anche di peggio, e cioè che si pretenda di superare la crisi con annunci sempre meno credibili di innovazioni che starebbero per essere introdotte, senza peraltro mai indicare elementi obiettivi che dovrebbero giustificare un atteggiamento di fiducia. Si direbbe che ormai si sia rinunciato a spiegare le ragioni della crisi e si utilizzino cascami interpretativi presi a prestito da altri settori della vita sociale, o si sfruttino gli aloni positivi associati a elementi di razionalità impliciti nello sviluppo tecnologico, per coprire l’assenza di interpretazioni e progetti originali per lo sviluppo del sistema educativo. Eppure, proprio cercando di capire quali siano gli scenari che nei diversi Paesi caratterizzano l’attuale fase di trasformazione dei sistemi educativi, si potrebbero trarre utili indicazioni circa le direzioni verso cui tendere. Anche se in modo schematico, potremmo separare nelle politiche scolastiche alcuni principali orientamenti. Il primo è quello di Paesi in cui l’analfabetismo continua a costituire una piaga diffusa e nei quali la miseria diffusa, unita a condizioni politiche sfavorevoli, impedisce che si promuova la crescita dei sistemi educativi. Un secondo orientamento è quello di Paesi che hanno effettuato scelte per uscire dalla marginalità delle condizioni postcoloniali e seguire un percorso di sviluppo che riguardi insieme la vita civile e politica, il sistema produttivo e l’educazione. Il terzo orientamento è quello che si manifesta in Paesi tesi a un potenziamento dalle strutture produttive che prescinde dal perseguimento di traguardi ugualmente impegnativi nella vita sociale. Infine, c’è da considerare l’orientamento dei Paesi europei e di quelli che, in altri continenti, si pongono in continuità con la medesima tradizione. Le comparazioni Ocse riguardano soprattutto quest’ultimo orientamento. Sono poste in evidenza le diversità che si manifestano tra un Paese e l’altro, ma le graduatorie sulle quali si richiama l’attenzione indicano, bene che vada, che ci sono Paesi che ottengono risultati migliori di altri, ma non che quei risultati sono da considerare di per sé positivi. Ciò ha favorito l’inserimento in chiave concorrenziale nelle posizioni elevate delle graduatorie del terzo orientamento, presente soprattutto in alcuni Paesi dell’estremo Oriente e, dall’ultima rilevazione (2012), in Cina, o almeno nella provincia presa in considerazione, quella di Shangai. Solo per il prevalere nell’attività dell’Ocse di una logica di globalizzazione si è potuto accettare di comporre in un unico quadro modelli educativi tanto lontani fra loro come sono quelli europei rispetto a quelli di alcuni Paesi che recentemente hanno conosciuto un rapido sviluppo dell’educazione scolastica, come quelli che prima sono stati menzionati. In quei Paesi il livello di competitività alla base del successo scolastico è incomparabile rispetto a quello che si osserva in Europa. Il successo è perseguito ad ogni costo, anche a quello di sacrificare altri aspetti importanti dell’educazione scolastica, sono quelli che si collegano alla socializzazione e allo sviluppo affettivo. Gli esami sono fortemente selettivi, e in conseguenza già a quindici anni (l’età presa in considerazione per le comparazioni Ocse) il percorso educativo appare segnato dagli effetti di una competizione esasperata, non di rado all’origine di un’autodistruttività che contraddice il ruolo dell’educazione, quello di favorire l’adattamento alla vita delle nuove generazioni. Ha senso comparare dati sul successo scolastico che si riferiscono a situazioni così diverse? Ma, anche restando all’interno del quarto orientamento, quello della scuola europea, ci si trova di fronte a differenze che riducono fortemente la capacità delle graduatorie di dar conto della capacità dei sistemi educativi di perseguire determinati intenti. Si passa da sistemi scolastici che si sono progressivamente caratterizzati per la loro capacità di organizzare una parte prevalente del tempo di vita degli adolescenti a sistemi che si limitano ad assicurare un certo numero di lezioni, senza tener conto della necessità di radicare l’apprendimento degli allievi attraverso attività che comportino l’esercizio di un saper fare intelligente. Nelle comparazioni internazionali non sono i nostri allievi che scapitano rispetto ai loro coetanei europei, ma è il nostro sistema scolastico che denuncia l’angustia delle scelte effettuate, sul piano della quantità (orari rachitici di funzionamento) e della qualità, ovvero, in primo luogo, dell’uso delle risorse. Quando si fanno annunci mirabolanti sulle prospettive salvifiche di un’innovazione fondata su soluzioni delle quali nessuno è in grado di dimostrare l’efficacia (e spesso è stato, invece, dimostrato che possono indurre effetti negativi), la comparazione non ha nulla a che fare con le prestazioni degli allievi, ma con le scelte dissennate operate a livello del sistema.
da L’Unità