IERI in Svizzera, domani in Italia e nel resto d’Europa? Il voto popolare con cui il nostro vicino alpino ha approvato l’idea di contingentare l’immigrazione e di privilegiare la mano d’opera autoctona è un segnale d’allarme per tutti gli europei. È probabile che se analoghe consultazioni si svolgessero nei paesi dell’Unione Europea il risultato sarebbe simile, se non ancora più drammatico (quasi la metà dei votanti elvetici si è comunque espressa contro). Le reazioni a Bruxelles e nelle principali cancellerie europee non riescono a celare lo sconcerto per un risultato che mette a repentaglio i rapporti euro-svizzeri.
Ma apre soprattutto un varco nel quale si infileranno le formazioni xenofobe e protezionistiche in Francia come in Germania, in Gran Bretagna come in Italia.
Già alle imminenti elezioni per il Parlamento europeo potremmo trovarci di fronte al trionfo del riflusso particolaristico, con conseguenze imprevedibili sulla legittimazione delle istituzioni comunitarie. Nulla di straordinario in tempi di declino e d’incertezza. Ma una ragione di più per cercare di decifrare il messaggio svizzero. Di cui occorre tenere a mente almeno tre peculiarità che ci riguardano molto da vicino.
Primo. È stato un voto contro l’establishment. Governo, imprenditori, sindacati e mainstream politico-mediatico avevano invitato il popolo sovrano a respingere l’iniziativa promossa dalla destra radicale impropriamente autodefinita Unione Democratica di Centro. Ma le élite si erano mosse senza troppo compromettersi, fiutando l’aria negativa. L’argomento fin troppo razionale per cui la mano d’opera straniera è imprescindibile per il benessere e lo sviluppo della Confederazione non ha fatto abbastanza presa nella Svizzera profonda. Qui ha prevalso la paura dell’“invasione” straniera che minaccerebbe le radici della convivenza in una piccola ma fiera nazione multiculturale e plurietnica, ancora una volta spaccata lungo il
Röstigraben, la linea di faglia fra Svizzera francofona e germanofona (ma anche italofona), oltre che fra città e campagne. Un problema di costume e di criminalità transnazionale, ma anche di dumping sociale: gli immigrati di modesta qualificazione professionale accettano salari nettamente inferiori a quelli standard, così sconvolgendo il mercato del lavoro locale.
Secondo. Quando i referendum sono fatti non per decidere su una questione specifica — che sia la scelta fra repubblica e monarchia o la costruzione di un parcheggio pubblico — ma per raccogliere e sfruttare un sentimento popolare, senza offrire un preciso sbocco normativo, gli effetti sono imprevedibili. E facilmente manipolabili. I promotori del referendum “contro l’immigrazione di massa” si sono guardati dallo specificare le quote annuali da introdurre come limite all’ingresso di stranieri, richiedenti asilo compresi. Il governo dovrà fissarle entro tre anni. Insomma, gli svizzeri non possono conoscere le conseguenze del loro voto. Esse saranno determinate dopo un dibattito interno tutt’altro che tranquillo, mentre la diplomazia di Berna cercherà di ricucire lo strappo con l’Unione Europea e con i suoi singoli Stati membri. Si potrebbe anche finire con il reintrodurre i controlli alle frontiere fra la Svizzera e i suoi vicini. Nel frattempo, il clima dell’economia locale — investimenti esteri inclusi — sarà indubbiamente offuscato dal braccio di ferro sull’immigrazione.
Terzo. La schiacciante vittoria del “sì” in Ticino (68,2%) è un indicatore dell’italofobia cresciuta oltre Chiasso in questi anni di crisi. Soprattutto per l’“effetto frontalieri”: nel cantone italofono i lavoratori che passano e ripassano in giornata il confine italosvizzero sono aumentati dell’80% in dieci anni. Ad essi vanno sommati gli oltre 53 mila residenti italiani, su un totale di 341 mila ticinesi, in un cantone nel quale i residenti stranieri sono ormai il 26,7% della popolazione. Dumping a parte, persino i più compassati media svizzeri parlano di “turismo criminale”, che accentua il senso d’isolamento dei ticinesi: trascurati da Berna e minacciati dal vicino meridionale. Dunque gli episodi di intolleranza e di xenofobia contro gli italiani si concentrano paradossalmente alla nostra frontiera. Sono invece assai più rari a Zurigo, a Ginevra o a Basilea. Mentre il negoziato fra Roma e Berna sui capitali italiani impropriamente detenuti da banche svizzere segna il passo, c’è da temere per il complesso delle relazioni con un paese che rappresenta il quarto mercato di sbocco del made in Italy, più importante di Cina e Russia messe insieme.
Il tempo non lavora per chi vuole frenare la tendenza alla chiusura reciproca fra europei, che siano o meno parte dell’Ue. In assenza di un chiaro e condiviso progetto europeo, è prevedibile che nei prossimi anni la bandiera dell’Europa — capro espiatorio della crisi — sarà sventolata come un drappo rosso da avventurieri e opportunisti eccitare le fobie e i nazionalismi esclusivi. E così disintegrare quel poco o molto di comune che siamo riusciti a ricostruire sulle macerie di due guerre mondiali. Nessuno potrà dire di non averlo saputo.
da la Repubblica
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“Il frontaliere alle porte che spaventa la Svizzera”, di Piero Colaprico
SONO le auto e la fretta degli italiani, che vanno e vengono tra i saliscendi del ricco paese di Mendrisio, a raccontare che cos’era e cos’è il loro lavoro. E sono anche i soldi che si mettono in tasca: «Mi spiace, ma la direzione non ci autorizza ad esprimere la nostra opinione sul referendum», rispondono in tanti, quando si cerca di capire meglio le possibili tensioni, e forse le paure, dopo il voto del referendum di domenica, che “chiude” agli immigrati la possibilità di libera circolazione. Persino alla pompa di benzina, dove si fa il pieno prima di tornare a casa, perché costa meno che in Lombardia, la bionda alla cassa ripete il mantra del «Mi spiace, non sono autorizzata».
Approfittando di un cancello aperto, entriamo nel grande garage sotterraneo della Consitex, gruppo Zegna. Ci sono decine e decine di auto, non da ricco, ordinate in file. Occhio alle targhe. Moltissime sono di Como, Varese. Le auto svizzere? Poche, una goccia nel mare di lamiere: sono le più vicine all’ingresso dell’azienda. Non è scritto da nessuna parte che gli svizzeri godano di maggiori comodità, ma nei fatti va in questo modo, e non solo qui, fabbrica per fabbrica, cantiere per cantiere. Dappertutto funziona così, a due velocità, in questo Canton Ticino, dove ogni giorno entrano ed escono passando dalle frontiere 60mila persone, i “frontalieri”: un mondo di lavoratori italiani in prestito alla Svizzera, ma non amalgamati alla Svizzera. Lo mostra alla perfezione l’ora del cambio turno. Sono le 14 e basta mettersi davanti alla Adaxis: la strada è stretta, ecco sette auto che escono in rapida successione dal parking e altre cinque che aspettano per entrare. Tutte targhe italiane: chi ha finito fugge verso casa, e chi arriva conquista il suo posto nell’ampio spiazzo. Fine turno anche alla fabbrica dell’oro, protetta da muraglioni e filo spinato: le giovani donne italiane in fila sul marciapiede accelerano il passo, comincia a nevicare. E là, alla fabbrica degli orologi, o forse a quella dei medicinali — sono stabili modernamente somiglianti — si scorgono dalla strada altre ragazze, una accanto all’altra, chine sulle postazioni di lavoro, a ripetere gli stessi rapidi movimenti. Gli oltranzisti, anni fa, hanno descritto gli italiani in un manifesto come «ratti famelici ». A vederli dalla strada, così da vicino, e lo si scrive con rispetto, al massimo possono ricordare i topolini: timorosi di un gatto che forse tanto immaginario non è.
Più d’uno, raccontandoci come stanno davvero le cose, chiederà l’anonimato. Lo fa anche il capo di un’intera famiglia di immigrati quotidiani, come se fossimo in un territorio, se non pericoloso, decisamente agguerrito: «Gli Svizzeri — dice, facendo sentire la “S” maiuscola — possono licenziarti da un giorno all’altro, senza motivo, e non si capisce mai cosa può dargli fastidio. Sono qui da 25 anni, ma preferisco non essere citato». Il suo suggerimento è di entrare alla “Fox town”, un centro commerciale, che con i suoi colori e le sue luci rompe le architetture da geometra infelice del resto del paese. Tre chilometri di vetrine su tre piani, marchi prestigiosi come Prada, Valentino, Missoni, Gucci, boutique, negozi per la casa, sette tra bar e ristoranti. Finalmente, qui l’esercito dei topolini è più conscio della sua forza: «Noi frontalieri qui saremo l’80%, senza di noi qui si chiudono tutte le saracinesche, e anzi dovunque a Mendrisio si chiude senza di noi, non hai visto quante auto italiane? ». E voi dove parcheggiate, nel sotterraneo? «No, è per i clienti. Noi dobbiamo parcheggiare oltre il ponte…».
Se Mendrisio per gli svizzeri è un bel paese, per gli italiani è una gigantesca fabbrica. E se queste ragazze e ragazzi, questi papà, questi lavoratori tacciono rispettando ogni imposizione, è soprattutto per una ragione concreta, anche se non evidente. Farsi dire quanto guadagnano è un’impresa, ma alla fine, dai e dai, uno accetta di dirlo: «Ci sono tante fasce salariali, da chi ha il tempo pieno al part-time, ma lo stipendio medio lordo qui è sui 2.900 euro al mese. Ognuno di noi, quindi, se ne mette in tasca ben più di 2mila. Per fare il commesso a Milano è vero che si prendono 700 euro, spesso in nero? Sono tre volte tanto. Non dirlo in giro, se no arrivano tutti qui».
Si può guadagnare il triplo, va bene: ma se il referendum in sostanza dice no allo straniero, questo “surplus” non potrebbe finire nel modo peggiore? «Ci hanno detto che se problemi ci saranno, non saranno per noi che siamo già qui». È questa la risposta di una giovane donna, elegante commessa di un marchio prestigioso, con un sorriso educato: l’implicita conferma che a qualunque latitudine chi «è già qui» si autoconvince, e s’illude, che i guai capitino sempre agli altri, a chi «verrà dopo».
Questa chiave d’accesso monetaria (valutaria) verrà confermata al cronista dovunque. «Faccio il part-time e guadagno come se in Italia lavorassi a tempo pieno», dice la concierge di un hotel. E un tecnico super-specializzato aggiunge: «Prendo, più o meno, il doppio di quanto prende in Italia uno con le mie mansioni. Prendo bene, via». Il meccanismo, però, s’è inceppato? «La verità è che questi stipendi, così allettanti per gli italiani, erano bassi per gli svizzeri. Qui un disoccupato cronico riceve 2mila euro al mese. Sempre qui uno svizzero doc che perde il lavoro, e certamente non accetta di fare tutti i lavori, specie quelli manuali, viene mantenuto dalla collettività per due anni — ci raccontano — con uno stipendio pari all’80% dell’ultima busta paga. Insomma, non è che tutti gli svizzeri si sbattano…». Questo fortunato relax alla ticinese viene ignorato dai partiti più di destra, dai populisti, ma il fatto è che «adesso girano ragazzi italiani, anche laureati, non più del Nord, ma di ogni angolo d’Italia. Vengono a Lugano con un pacco di curriculum alto così – spiega un imprenditore locale – e girano le agenzie interinali, o i bar e ristoranti, chiedono, s’informano, restano. Magari qui in un call center guadagni anche 20 euro all’ora».
Nella grande complessità di valori in gioco questo referendum, passato con il 50,3% dei consensi, è dunque, come dicono molte associazioni di frontalieri, un triste e crudele «ritorno nel passato»? Oppure nasconde altro? Lo si saprà forse a maggio. Perché un altro referendum è alle porte. L’ha proposto, tra gli altri, il sindacato Unia. Premessa: in Svizzera i contratti collettivi non sono affatto la norma, qui vale spesso il principio “arrangez- vous”, il “fate voi”, azienda per azienda, e non c’è un minimo salario. Sergio Aureli, 38 anni, uno dei responsabili e futuro candidato pd alle europee, la spiega così: «Abbiamo raccolto le firme, è tutto ok, e il 18 maggio, domenica, chiederemo agli svizzeri se accettano o no di imporre per tutti i lavoratori uno stipendio minimo garantito. L’abbiamo pensato di 4mila franchi, 3.200 euro lordi al mese. Questo per noi è l’unico modo per favorire la concorrenza leale, quella che si basa sulla qualità della manodopera, o no?».
Il fiorire di proposte popolari — dai minareti al tetto dello stipendio dei manager — colpisce e sembra sottolineare uno stile, o un’esigenza. Come se, forti delle banche e dei referendum, gli svizzeri, “nel loro piccolo”, volessero mostrare i muscoli. E dettare alla grande e malferma Europa qualche tema cruciale, anche se difficile da digerire.