«La barca è piena». Chissà chi la inventò questa metafora che da decenni fa il giro d’Europa. Forse la Cdu tedesca, quando decise che per vincere le elezioni era arrivato il tempo di liberarsi dei tabù del passato che non passa.
O forse la Csu, la ancor più conservatrice sorella bavarese che irresponsabilmente ci ricama sopra ancor oggi. O forse proprio gli svizzeri: quelli del Partito popolare, alias Unione democratica di centro (che non è né democratica né di centro) rifondata sullo scheletro d’un vecchio partitello semirurale da un industriale di Sciaffusa che si chiama Christoph Blocher ed è stato anche ministro federale della Giustizia e della Polizia. I «liberali» austriaci della Fpö che fu di Jörg Heider ed ora è di Heinz-Christian Strache l’hanno fatta propria, mentre il Front National francese e il National Front dei fascisti britannici accarezzano suggestioni più «alte»: Anima, Tradizioni, Foyer, Home. E Popolo, che non manca mai dal tempo in cui i Romantici tedeschi riscoprirono il Volk e – senza saperlo né volerlo, va da sé – ne trasmisero l’idea fino ad Adolf Hitler. La Lega nord italiana ha provato ad essere altrettanto fantasiosa, ma fatica a scrollarsi di dosso il suo imprinting irrimediabilmente provinciale, condito di spadoni, corna (pseudo) celtiche e storia indigerita.
Ecco. A prima vista sembrerebbe che sotto lo sciagurato referendum con cui la metà degli svizzeri più trentamila ha deciso che gli stranieri nel paese di Guglielmo Tell dovranno essere contati e, possibilmente, rimandati a casa loro non ci sia poi granché di nuovo. Tante parti d’Europa non amano gli «altri», i non-svizzeri, i non-tedeschi, i non-francesi, i non-padani, i non-savoiardi, i non-norvegesi, i non-ungheresi. È una novità sconvolgente? Non sapevamo già che il Front National in Francia è primo nei sondaggi? E non predicono gli esperti che i populisti antieuropei prenderanno un sacco di voti alle elezioni di maggio e formeranno forse il terzo gruppo al Parlamento europeo? Cantoni arretrati
Certo che lo sapevamo già. E tuttavia quello che è successo domenica scorsa nella Confederazione rappresenta una novità grossa e inquietante. Per la natura del voto, innanzitutto. I promotori del referendum avevano condotto una campagna molto concreta e terra- terra: gli stranieri sono troppi, tolgono il lavoro agli svizzeri, pesano sul bilancio delle prestazioni sociali nei comuni, intasano le nostre autostrade, riempiono i nostri treni, affollano i nostri tram. E però gli elettori hanno bocciato l’introduzione delle quote proprio dove questi disagi si dovrebbero sentire di più: nelle grandi città come Zurigo, Ginevra, Basilea, Neuchâtel e nei cantoni di più forte immigrazione. A far vincere il blocco agli stranieri sono stati i cantoni tedeschi, quelli meno industrializzati e quelli in cui gli immigrati sono relativamente pochi. Il voto è stato espressione di una arretratezza, un po’ come lo fu, a suo tempo, quello in Italia alla Lega degli esordi. Espressione della paura di perdere ricchezze da poco raggiunte, come nel nostro Nord-est. Il rifiuto degli stranieri è un fatto culturale e ideologico più che una «naturale» reazione a un pericolo reale. La controprova è data dal risultato, in controtendenza, nel Canton Ticino. Una regione prospera, in cui una buona parte della ricchezza locale è data proprio dai frontalieri italiani e dagli industriali lumbàrd che delocalizzano, ma dove è forte l’influenza politico-culturale della Lega ticinese, sorella ed emula della Lega nord italiana. La quale ora pagherà cara la nemesi, come ha capito Maroni che si preoccupa e non ancora Salvini che festeggia.
Proprio il carattere arretrato, regressivo del voto in Svizzera e la soddisfazione con cui, ciononostante, è stato accolto da una consistente platea di partiti di destra, nazionalisti, xenofobi, antieuropei che dispongono di consistenti appoggi popolari nei paesi dell’Unione è ciò che deve preoccupare di più. Gli entusiasmi che si vedono in queste ore mostrano che c’è uno schieramento politico europeo, minoritario ma non irrilevante, che rifiuta non solo le politiche e le istituzioni dell’Europa, ma anche le sue basi ideali e culturali. Non solo l’euro, ma, per esempio, il principio che esiste la libertà di muoversi e di viaggiare: qualcosa che nel secondo dopoguerra nella parte libera del continente nessuno aveva messo in discussione in linea di principio. Rispetto agli anni passati, a quelli precedenti la valanga della crisi, è una novità con cui bisognerebbe cominciare a fare conti seri.
Le reazioni delle istituzioni e delle cancellerie europee sono apparse – è vero – abbastanza consapevoli della natura del problema. Manon pare che lo siano state altrettanto, nel passato, quando hanno scelto politiche economiche e sociali che hanno indubbiamente favorito l’emergere di spinte contro l’Europa così com’è. Sono queste politiche che debbono cambiare.
da L’Unità
******
“Immigrati, il rompicapo svizzero”, di Virginia Lori
Allarme Ue dopo il referendum che reintroduce le quote. A rischio le relazioni con Berna, ombre sulle Europee. Merkel: «Problemi considerevoli». Stampa elvetica divisa: «Danno economico»
Il risultato del referendum svizzero sulle quote per i lavoratori immigrati «va in una direzione che non è la più facile in una prospettiva europea». È stato questo il commento dell’alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton al termine del Consiglio dei ministri degli Esteri tenutosi ieri a Bruxelles. «Sia la Commissione che il Consiglio – ha aggiunto – sono al lavoro per vedere come procedere». E assicura che è in corso la discussione con gli interlocutori svizzeri «per individuare i percorsi futuri».
Pare comunque certa una forte reazione dell’Unione europea alla decisione della Svizzera di porre un tetto agli immigrati. Ad una limitazione della libertà di movimento dei cittadini dell’Unione in territorio elvetico potrebbe seguire la revisione di tutti gli accordi esistenti e in discussione tra la Confederazione elvetica e l’Unione europea.
Per domani è in calendario la firma dell’accordo istituzionale Ue-Svizzera per adattare il corpo legislativo elvetico a quello dell’Unione, ma ora quella firma potrebbe essere a rischio. Non sono pochi i dossier aperti tra la Ue e Berna che ora ha tre anni di tempo per dare seguito al risultato del referendum, ma intanto è invitata a fornire chiarimenti. Da Bruxelles si fa notare che il negoziato sui nuovi accordi «parte in salita» e «non sotto i buoni auspici». Non si nasconde il «profondo rammarico» per l’esito del referendum che ha visto sconfitto il governo elvetico e vincente il partito antieuropeo dell’Unione democratica di centro (Udc).
80.000 posti in bilico
«È andato contro il principio – si legge in un comunicato della Commissione Ue – della libera circolazione delle persone fra l’Unione europea e la Federazione elvetica». Un principio «sacro» per l’Unione. «L’iniziativa svizzera avrà delle conseguenze nell’ambito dei rapporti con i Paesi membri» sottolinea il commissario europeo per la Giustizia, Viviane Reding: «La Svizzera non poteva aspettarsi di godere dei benefici del libero scambio con l’Ue, senza accettare la libertà di movimento. O si accettano gli accordi nella loro totalità o si lascia perdere tutto».
Insomma, aver posto i limiti alla libera circolazione per i cittadini comunitari non sarà indolore per la stessa Svizzera. Lo conferma il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. «È difficile – ha spiegato il socialdemocratico tedesco candidato alla carica di presidente della Commissione dal partito socialista europeo – limitare la libera circolazione delle persone e non limitare la libera circolazione dei servizi». «Se la Svizzera non è più in grado di soddisfare le condizioni dell’accordo sulla libera circolazione delle persone – ha osservato – tutti gli altri accordi firmati nel 1999 sono in pericolo, in base a una clausola che li lega insieme».
Reagiscono anche le cancellerie europee. «Il governo tedesco prende atto del risultato e lo rispetta, ma dal nostro punto di vista è chiaro che ciò pone problemi considerevoli» ha commentato il portavoce della cancelliera tedesca Angela Markel, Steffen Seibert. «Le relazioni che legano la Svizzera all’Unione europea apportano grandi vantaggi alle popolazioni delle due parti e la libera circolazione è il cuore di queste relazioni» ha proseguito Seibert. «Il nostro interesse resta quello di mantenere più saldo possibile il legame tra la Svizzera e l’Unione europea». È netto anche il giudizio del ministro degli esteri francese, Fabius che considera l’esito del referendum «una cattiva notizia per l’Europa» che «ora dovrà rivedere i suoi rapporti con la Federazione elvetica». «Ma – aggiunge – è una cattiva notizia anche per la Svizzera che, circondata interamente da paesi dell’Ue, si chiuderà in se stessa penalizzando l’economia». Non va dimenticato, infatti, che l’Ue è il primo partner commerciale della Svizzera e che il clima di incertezza legato all’introduzione delle quote per gli immigrati, secondo gli economisti del Credit Suisse, potrebbe portare ad un taglio di 80mila posti di lavoro in tre anni. Tra i Paesi più coinvolti vi è l’Italia. Esprime forte preoccupazione la responsabile della Farnesina, Emma Bonino. «A Bruxelles – afferma – si stanno valutando anche le eventuali conseguenze sui rapporti di tipo fiscale fra Ue e Svizzera». In ballo vi è il destino degli oltre 60mila «frontalieri» italiani che ogni giorno attraversano il confine elvetico.
da L’Unità