Ci sono le larghe intese anche nel futuro dell’Europa? Qualcuno, guardando ai sondaggi
che in questi giorni cominciano a circolare sulle elezioni per il parlamento europeo del 22-25 maggio, pensa che a una megacoalizione tra socialisti & democratici da una parte e popolari dall’altra non ci siano alternative. Il Ppe è in netto calo e dovrebbe prendere
una cinquantina di seggi in meno rispetto ai 275 che ha ora. Il gruppo S&D crescerebbe invece di una ventina di europarlamentari arrivando a quota 213, in un testa a testa in cui alla fine potrebbe anche sperare di prevalere.
Ma i socialisti e democratici non potrebbero comunque contare sull’esistenza di una maggioranza a sinistra del centro, pur se la sinistra radicale del Gue/Nlg dovrebbe ottenere un buon risultato, crescendo di 23-24 seggi fino a contarne una sessantina e
superando i Verdi che perderebbero un buon terzo dei loro 58 seggi attuali.
Ammesso (e non concesso) che fosse praticabile un’alleanza, magari limitata
e solo tattica, tra S&D, sinistra radicale e Verdi, essa potrebbe contare su non più di 312-313 deputati, ben meno della maggioranza relativa dei 751 eurodeputati.
Una maggioranza, a dire il vero alquanto risicata, ci sarebbe solo se alle sinistre si aggiungessero i liberaldemocratici del gruppo Alde che, sempre stando ai sondaggi, sarebbero in leggero calo ma comunque vicini agli 80 seggi. Una prospettiva realistica in
fatto di convergenze sui temi dei diritti e delle libertà civili, ma ben meno praticabile sul terreno dell’economia.
Dall’altra parte i popolari in fatto di potenziali alleati non stanno certo meglio. Anzi. Il gruppo dei conservatori (britannici e polacchi) pare in netto declino e la galassia dei gruppi e gruppetti sulla destra dovrebbe essere fagocitata dal nuovo gruppone degli anti-euro capitanato dal Front National di Marine Le Pen e dai populisti
dell’olandese Geert Wilders chiaramente incompatibile con le posizioni europeiste del Ppe, pur con tutte le sue esitazioni e contraddizioni. Neppure a destra, dunque, esisterebbe una possibile maggioranza.
Ciò significa che le larghe intese, magari più simili alla große Koalition tedesca che al modello italiano, a Bruxelles e a Strasburgo sono praticamente inevitabili? La domanda è mal posta perché è sbagliato considerare la condizione politica della futura assemblea europea con i criteri dei parlamenti nazionali. L’europarlamento è in una fase di passaggio: per la prima volta, il 22-25 maggio gli elettori voteranno, insieme con un partito, il candidato che quel partito indicherà per la presidenza della Commissione
europea.Èuna novità importante sotto il profilo della democrazia e della partecipazione dei cittadini, ma la nomina del futuro presidente e dei membri della Commissione, che avverrà a novembre, resterà comunque nelle mani dei governi nazionali e i nuovi
parlamentari avranno, al più, un potere di orientamento o di veto. Il voto europeo, insomma, non è l’elezione del futuro governo europeo.
Questa circostanza rispecchia l’incompiutezza della costruzione europea e le incongruenze democratiche che ne conseguono. In un certo senso, poiché nell’Unione coesistono governi di centro-destra e di centro-sinistra, le larghe intese, almeno nella formazione della futura Commissione sono, in qualche modo, inevitabili. Lo sarebbero
anche nell’ipotesi (teorica) che la sinistra o la destra ottenessero dalle urne una maggioranza schiacciante. Ma questo non significa che la battaglia politica per il parlamento sia inessenziale. Lo scontro tra i socialisti&democratici, che saranno capitanati dal socialdemocratico tedesco Martin Schulz, e i popolari, che tutto
lascia prevedere sceglieranno come candidato Jean-Claude Juncker nel congresso del 7 marzo a Dublino, avrà una posta molto alta. Ben difficilmente i governi nazionali potrebbero ignorare l’indicazione alla guida della Commissione sostenuta dalla maggioranza degli elettori europei: è praticamente certo che a novembre sulla poltrona
più importante dell’Unione si siederà o il socialista Schulz oppure il popolare che sarà stato scelto a Dublino.
E non sarà indifferente, per la politica dell’Unione, se a capo del suo esecutivo
ci sarà un progressista sensibile agli aspetti sociali della politica economica o un conservatore attento solo alle ragioni della disciplina di bilancio.
L’alternativa esiste, dunque, dà sostanza alla dialettica destra-sinistra e impone scelte alla sinistra. A favore di Schulz potrebbero schierarsi, al momento della designazione parlamentare del candidato alla presidenza, i deputati eletti dalle sinistre radicali, che si presentano alle elezioni proponendo il greco Alexis Tsipras e una politica certamente europeista ma di forte rinnovamento della politica economica
e finanziaria dell’Unione. Potrebbe essere una spinta decisiva perché nelle file dei socialisti&democratici si faccia strada un orientamento più chiaro e meno consociativo, meno succube del pensiero economico unico che nel segno dell’austerity ha dominato
le politiche anti-crisi, di quello mostrato finora nei vari paesi e a Bruxelles.
da L’Unità