La diffusione degli strumenti di comunicazione tecnologica e di internet ha radicalmente modificato la nostra civiltà, il modo di vivere la gioia, il dolore, l’istante privato e quello pubblico. Il dramma personale diventa oggetto di spettacolarizzazione globale. La morte e la violenza ripresi in diretta sono tra i video più cliccati del web, registrano ascolti televisivi altissimi. A questo ormai siamo abituati, così come agli applausi che accompagnano i funerali. Nella società dell’immagine e della condivisione, tutto ciò che accade nella realtà può essere catturato, trasferito e diffuso in tempi rapidissimi. Sono soprattutto gli adolescenti, molto sensibili ai temi di visibilità e successo, bisognosi di sapere che esistono nella mente degli altri, a non occuparsi delle conseguenze che può avere la divulgazione di immagini e filmati attraverso la rete. Non solo. Il senso stesso della violenza sembra svanire, in nome della necessità di trasformare l’occasione drammatica in «spettacolo», da osservare, filmare, divulgare. Come nella mente degli adolescenti del «pestaggio» di Bollate: si è costruita una pericolosissima dinamica che ha portato quei terribili momenti a trasformarsi in «evento». Per un lungo periodo nessuno interviene per porre fine alla violenza, mostra indignazione, rifiuto. L’indifferenza tra gli individui è un fatto a cui assistiamo quotidianamente. La libertà delle scelte, dei comportamenti e dei valori di riferimento rende la nostra società «trasparente» rispetto ai principi dell’etica tradizionale. Quel che conta è assistere per esibire, non intervenire per soccorrere. Eppure gli affetti sono al centro della regolamentazione dei rapporti. L’etica familiare contemporanea promuove sensibilità agli affetti della società ristretta ma non sempre riesce a promuovere un’etica sociale in senso ampio. In famiglia si mettono a punto regole specifiche, valide per il singolo nucleo ma non associate a valori assoluti. È forse giunto il tempo di individuare una strada moderna che conduca a una nuova forma di «comunità educante»: i conducenti non possono che essere gli adulti che presidiano le agenzie educative e che governano le istituzioni politiche.
da il Corriere della Sera