Prato è un pentolone che ribolle. Dopo il tragico rogo del 1 dicembre scorso, nel quale hanno perso la vita sette operai cinesi, uccisi dalle fiamme e dal fumo mentre dormivano nel capannone nel quale lavoravano, la città laniera, che un tempo fu il fiore all’occhiello del made in Tuscany, non dorme sonni tranquilli. A distanza di due mesi dal rogo, continuano ad arrivare in città giornalisti stranieri per capire, chiedere, vedere con i propri occhi come sia stato possibile che nella Toscana culla dell’artigianato d’ingegno e di lusso, sia stato possibile veder morire sette persone così.
L’illegalità, sulla quale ha messo radici e prosperato un certo tipo di manifattura, quella dei capi low cost realizzati da imprese gestite da cinesi, ha una storia vecchia almeno vent’anni e ormai è un cancro difficile da estirpare. Ma è su questo argomento che si giocherà, per l’ennesima volta, la battaglia elettorale per le amministrative di primavera dove il giovane deputato renziano Matteo Biffoni sfiderà con ogni probabilità il sindaco uscente di centrodestra Roberto Cenni. «Negli ultimi anni il mondo è cambiato e Prato ha fatto fatica a stare al passo – dice sicuro il candidato del Pd -. Si sono sovrapposti fenomeni diversi, dalla crisi economica ai forti flussi migratori, che la città ha spesso solo subìto, invece di provare a rilanciare». Un segnale di cambiamento per far mangiare la polvere a Cenni, imprenditore di fast fashion assurto agli onori della cronaca per il fallimento del suo gruppo, la Sasch, e per aver subito il primo sciopero di operai cinesi nella fabbrica che aveva aperto proprio in Cina, a Shanghai.
Cenni vuole ripresentarsi ma vuol farlo con una lista civica, senza il peso delle bandiere di Forza Italia o Udc (che lo sostengono) e aborrendo l’eventuale appoggio del Nuovo Centrodestra con alcuni esponenti del quale lo dividono vecchie ruggini. L’unico segno di discontinuità della sua giunta rispetto alle precedenti – 63 anni di ininterrotta guida del centrosinistra – è stata la guerra a colpi di blitz alle aziende irregolari cinesi. Centinaia di controlli, che lo stesso Cenni e l’assessore sceriffo Aldo Milone snocciolavano fieri due mesi fa in via Toscana, tra i capannoni del Macrolotto.
I controlli a tappeto però non hanno fatto altro che sollevare solo un po’ di polvere. Spiega la giornalista del Sole 24Ore Silvia Pieraccini, autrice di un saggio sul fenomeno, L’assedio cinese – Il distretto senza regole degli abiti low cost di Prato: «I controlli sono importanti ma se non c’è un raccordo tra i vari enti preposti a farli, in questo caso almeno dieci, diventano di fatto inutili. Con aziende che nascono e muoiono in un battito di ciglia, si rischia che un’eventuale multa comminata arrivi quando della fabbrica non resta nemmeno il titolare. Non solo. Tutti gli enti che sono deputati ai vari controlli non parlano tra loro, non hanno archivi comuni da scambiarsi». In pratica è come arginare una piena con un dito, se si pensa che le imprese cinesi attualmente registrate a Prato sono quasi 5000: 3700 nella filiera dell’abbigliamento e 1000 tra bar, ristoranti e supermercati. «I controlli e le sanzioni nei magazzini cinesi vanno proseguiti e perfezionati – sostiene dal canto suo Biffoni – ma devono essere affiancati a progetti concreti per sostenere chi vuole emergere e promuovere l’integrazione. Il tavolo di lavoro per Prato deve essere aperto e gestito dalla presidenza del Consiglio. Da sola la comunità di Prato non ce la può fare».
Ma come si è arrivati a questo? La prima ondata di immigrazione cinese a Prato arriva all’inizio degli anni 90. I pionieri iniziano a lavorare come contoterzisti per le imprese tessili gestite dai pratesi che gradiscono questa manodopera veloce e a basso costo. Lavorano tanto e non battono. In testa hanno un chiodo fisso: diventare imprenditori. Alla fine degli anni 90, con la crisi del tessile, fanno il salto. Gli operosi cinesi da contoterzisti si trasformano in imprenditori di moda a basso costo: fanno pronto moda che già avevano iniziato a fare i pratesi. Nell’arco di una manciata di anni, il Macrolotto, sorto negli anni 80 per regolare le aziende tessili pratesi, parla cinese. Adesso vendono i loro capi a prezzi irrisori – 2 euro per una maglietta, 10 per un cappotto – soprattutto nei paesi dell’Europa dell’Est ma anche in Libia, Tunisia, Grecia. La possibilità di mettere il marchio Made in Italy apre molte porte. Utilizzano tessuti acquistati in Cina e manodopera di compatrioti disposti a tutto pur di arrivare in Occidente.
IL MECCANISMO DELL’ILLEGALITÀ
«La cosa funziona così – continua Silvia Pieraccini – gli operai che prestano la loro manodopera in questi capannoni per i primi due anni non percepiscono nessuno stipendio perché il loro titolare anticipa i soldi per farli venire in Italia e quindi li devono riscattare. In cambio del lavoro, anche 14-16 ore al giorno, hanno vitto e alloggio spesso in una piccola stanza ricavata nel capannone nel quale lavorano. Sono anfratti realizzati con il cartongesso o con il truciolato, dove si muore di freddo e dove per scaldarsi e cucinare si usano le bombole di gas perché allacciarsi alla rete del metano vorrebbe dire denunciare che dentro quei laboratori ci si vive. Sono lavoratori fantasma perché i datori di lavoro tengono in custodia i loro passaporti, spesso non parlano una parola d’italiano e sovente nemmeno il mandarino ma solo il dialetto della loro regione. Ai nostri occhi appaiono come schiavi ma la verità è che nella maggior parte dei casi accettano queste condizioni e non si ribellano perché vogliono guadagnare e aprire loro stessi un laboratorio». Quando Pieraccini ha scritto queste era il 2008 e a quanto pare niente è cambiato.
All’indomani del rogo, è stato istituito un tavolo nazionale a Roma con quattro ministri per affrontare la questione Prato. Ma dopo la prima convocazione non se n’è saputo più nulla. Il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi ha recentemente denunciato la lentezza del governo. Lui, dal canto suo, ha stanziato 10 milioni di euro per assumere 50 nuovi ispettori della Asl 4 (più altri 24 per le Asl limitrofe) che verifichino le condizioni di sicurezza. La previsione è di fare oltre 2900 controlli all’anno. Ma c’è bisogno anche di altro. Innanzitutto di districare quel groviglio di interessi che ha fatto sì che negli anni molti italiani si siano resi complici dell’evasione fiscale delle aziende cinesi affittando loro i capannoni a cifre esose e quasi del tutto a nero. Un fatto è certo. Le 3700 imprese di moda hanno 2 miliardi di euro stimati come valore di produzione all’anno e il 50% di questi incassi è in nero. Non solo. Ammontano a 400 milioni di euro all’anno le tasse non pagate e se si moltiplicano per vent’anni si capisce di cosa si parla. Se a tutto questo si aggiungono i milioni e milioni inviati in Cina attraverso i Money Transfer, il quadro è ancora più chiaro. In un tessuto così denso di denaro e di possibilità di eludere i controlli è stato inevitabile che la criminalità organizzata mettesse radici. E quella della mafia cinese è diventata molto più di un’ombra.
In una città che conta ben 110 etnie e la più grande comunità straniera d’Europa se rapportata alla popolazione (45mila cinesi sui 190mila abitanti di Prato e i 250miladella Provincia), per capire il clima basta scorrere in un qualsiasi giorno della settimana i titoli dei giornali locali. Per esempio, La Nazione on line di martedì4 febbraio: «Trasporta abusivamente900paia di pantaloni: sequestro e maxi multa al Macrolotto»; «Loculi dormitorio, sigilli a ditte cinesi»; «Capi in cachemire fatti con peli di topo». Per gettare un po’ di balsamo sulle ferite della città, basta fare capolino al Museo del Tessuto. Lì da qualche giorno è ospitata la mostra «La camicia bianca secondo me», una retrospettiva dedicata al genio dello stilista-architetto Gianfranco Ferrè. All’uscita dal museo, vagando per le stradine del piccolissimo centro storico, con l’imponente Castello dell’Imperatore e le sue otto torri a dominare la città, si osservano dondolare ai balconi le foto in bianco e nero di coppie di italiani e cinesi che vivono insieme. Sono storie di integrazione, portate alla luce dal progetto Facewall. Un segno piccolo ma tangibile che qualcosa forse si può cambiare. Stando insieme.
da L’Unità
Pubblicato il 7 Febbraio 2014
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