Durante la direzione Pd di ieri Matteo Renzi ha tracciato i contorni della “sua” camera alta. Vi siederanno in 150 tra sindaci, presidenti e società civile
Non solo risparmi. Durante la direzione Pd di ieri Matteo Renzi ha tenuto a chiarire che la sua proposta di riforma del senato della repubblica, che pure a regime promette di arrivare a quel famoso miliardo di risparmi, non ha solo il senso di una spending review istituzionale.
Il faro è l’Italia dei comuni, perché «la centralità del rapporto tra cittadino ed eletto non ce l’ha il consigliere regionale». E allora i 150 posti della nuova camera alta che il segretario Pd ha in mente saranno divisi tra i 108 sindaci dei comuni capoluogo di provincia, i 21 presidenti di regione più altri 21 esponenti della società civile «temporaneamente cooptati dal presidente della repubblica per un mandato».
Secondo lo schema di Renzi l’assemblea di palazzo Madama, che perderebbe così la sua natura elettiva, non avrebbe parola sulla fiducia al governo o sulla legge di bilancio. Addio al bicameralismo perfetto. Parteciperebbe invece all’elezione del presidente della repubblica e contribuirebbe all’elezione dei rappresentanti italiani negli organi europei, di fatto configurandosi più come una camera della autonomie, più che come un senato delle regioni.
Poi, certo, c’è il capitolo dei risparmi. Innanzitutto attraverso la cancellazione dei senatori (almeno quelli eletti, dato che la sorte dei senatori a vita non è ancora scritta), in secondo luogo con i risparmi previsti sugli emolumenti dei consiglieri regionali che non potranno percepire più di quanto guadagna il sindaco del rispettivo capoluogo. Dall’entourage del segretario insistono nel fissare la cifra del risparmio complessivo (a regime) in circa un miliardo di euro.
Ancora nulla di ufficiale invece sulla questione della cosiddetta “azienda-senato”, il complesso di dipendenti e quadri dirigenziali che fanno funzionare la macchina di palazzo Madama. In ogni caso, almeno in via ufficiosa, viene fatto capire che gli oltre 800 dipendenti che conta il palazzo resterebbero centrali: vista la natura autonomista e non elettiva dell’assemblea la loro funzione di raccordo resterebbe essenziale.
Non si tratta, in ogni caso, di un tentativo inedito. Già nel 2005 il secondo governo Berlusconi aveva presentato e approvato la differenziazione dei compiti tra camera e senato. Poi quella riforma non è entrata in vigore perché bocciata dal referendum costituzionale del 2006. I tempi invece permangono un’incognita. Renzi sperava di arrivare all’incardinamento del progetto di riforma al senato entro il 15 febbraio per poi presentare il disegno di legge costituzionale alle camere e arrivare all’ok in prima lettura al senato entro il 25 maggio, in tempo per le europee. Potrebbe volerci di più, ma lo stesso Renzi non ha messo fretta, chiarendo che, anche sul punto della composizione dell’assemblea, è aperto a proposte alternative.
da www.europaquotidiano.it
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“I rischi del senato gratis e l’eccesso di sicurezza”, di Montesquieu
Il vero problema di questo parlamento è davvero la farragine che deriva dalla duplicazione o nella macchinosità di ogni suo ramo?
C’è una certa somiglianza tra il piglio impresso alla stagnante politica dall’energia del segretario democratico e alcune mitiche tappe di montagna di antichi giri di Francia e d’Italia: un campione che sostiene da solo e per intero lo sforzo della salita, e un passivo succhiatore di ruote che con un unico scatto finale taglia il traguardo per primo. Una percezione sinistra, non perché il vincitore sarebbe, ancora, il capo della destra, quanto per il tuffo all’indietro nel pieno dell’oscuro ventennio che ne deriverebbe.
Questa somiglianza, per ora, è il prematuro sentimento di spiriti non portati all’ottimismo, ma sottovalutarla o irriderla per eccesso di sicurezza sarebbe da stolti.
Si assiste, da un lato, alla cernita minuziosa, da parte di un anziano e malandato (politicamente) cucitore, di brandelli di politica singolarmente inservibili, per farne una coperta di rara bruttezza, ma resistente agli strappi; mentre lo scalatore audace e generoso fa incetta di seguaci e ammiratori, ma non esprime, o non sembra interessato ad esprimere, quella capacità coagulante senza la quale vincere le elezioni richiede una fatica supplementare.
Oggi non abbiamo che i soliti sondaggi, ma questi dicono che al traguardo i due schieramenti tradizionalmente avversi arriveranno ad impercettibile distanza l’uno dall’altra.
Per essere chiari, non si intravedono significativi alleati del Pd di Renzi: non un embrione di una sinistra “compatibile”, né uno spazio praticabile da altri soggetti sull’altro lato.
Né c’è da aspettarsi, in caso di ballottaggio al secondo turno, vecchio miraggio di tutti gli elettoralisti riformisti finalmente raggiunto, un minimo di buon senso da parte del cosiddetto terzo incomodo.
La parabola del sindaco fiorentino, leader carismatico e trasversale, può essere alla fin fine quella di un uomo solo, destinato a rimanere una meteora di passaggio se le sue sole forze non saranno sufficienti.
Potendo, gli si potrebbe consigliare di nascondere un po’ della debordante sicurezza di sé che emana, sostituendola con un po’ di socievole umiltà, magari enfatizzata. I nemici che oggi sembrano allo sbando – e che restano tanti –, sono più apprezzabili dei tanti amici inopinati e un po’ sfacciati. Più riguardo per un Fassina dalla inutilmente irrisa schiena dritta, e per i possibili alleati dell’1 percento, che comunque sono di lana migliore dei tanti pezzi slabbrati del logoro patchwork che si va componendo dall’altra parte.
Una volta archiviata la legge elettorale, la forza del nuovo motore della politica punterà ai nuovi bersagli, individuati nella trasformazione del senato e nel restauro dei rapporti tra centro e periferia, lesionati da vari interventi successivi.
Il primo obiettivo è stato definito da amici del nuovo leader “il senato gratis”, purtroppo con compiaciuta alta voce e davanti a qualche milione di italiani. Il rischio è invece quello di trovarci con una sorta di secondo Cnel, disertato quanto l’originale per il carattere volontaristico dell’incarico;con qualche milione in più di euro in cassa, un buon personale non facile da ricollocare, ma garanzie di qualcosa di nuovo per quanto riguarda l’efficienza delle istituzioni nessuna. L’operazione si può paragonare ad una dieta che assicuri perdita di peso attraverso l’amputazione di uno o due arti: ma dimagrire con armonia è un’altra cosa.
Quanto all’efficienza, non solo le ultime prestazioni grilline alla camera, ma la sequela di atti di guerriglia anti istituzionali dell’intero ventennio fanno supporre che il problema del nostro ordinamento sia piuttosto quello di un recupero di relazioni virtuose tra istituzioni, sulla base di un reciproco rispetto funzionale; e non quello di interventi su singoli organi, senza una valutazione d’assieme.
Il senato delle autonomie richiama la campagna sedicente federalista dell’epoca leghista, oggi piuttosto in ombra. Siamo o saremo un paese ad ordinamento federalista? Di quale tipo? Il federalismo fiscale è ancora un obiettivo?
Il primo problema di questo parlamento è davvero la farragine che deriva dalla duplicazione, o i germi dell’inefficienza sono da cercare nella macchinosità propria di ogni singolo ramo del parlamento, che non è solo dovuta a procedure divenute obsolete?
Qui si nasconde un altro motivo di perplessità: quale è la filosofia istituzionale e costituzionale che ispira sindaco-segretario ? Al momento, sembra il frutto di una miscela che raccoglie da un lato il lavoro dei “saggi” – incapaci di guardare – o disinteressati a farlo – alla reale condizione del nostro ordinamento costituzionale e ai rapporti tra parlamento, governo, corte costituzionale, giurisdizione, burocrazia, che hanno costretto il capo dello stato a esplorare spazi inediti di sorveglianza e garanzia –; e che valuta dall’altro quelle proposte con il fine di combinarle con il metro di palliativi dimostrativi da offrire al disagio delle genti, a riparazione dell’incapacità di interventi risoluti di uscita dalla crisi.
Il cambio di marcia promesso ed atteso, che appare già ora nelle corde fin qui conosciute di Matteo Renzi, richiede finalmente l’abbandono di misure dall’ambizione massima di un effetto placebo, e che rischiano di modellare l’economia nazionale su quella cinese – pochi e intangibili superricchi, e una moltitudine che si consola delle difficoltà altrui, con la scomparsa della classe media e della sua capacità di consumare –; e contempla l’intrapresa risoluta delle strade della crescita e della competitività nazionale. Se è vera l’energia del nuovo protagonista della politica italiana, questa strada è finalmente percorribile.
Senza correre il rischio di un’altra occasione perduta.
da www.europaquotidiano.it