La parola è oscura, ma il significato è certo: quando si comincia a parlare di «verifica», vuol dire che un governo è messo male, se non malissimo. Sommo «verificatore» fu considerato Andreotti, che si esibì nel rito per l’ultima volta nel 1991, alla vigilia del crollo finale. La liturgia in effetti rimanda alla Prima Repubblica, quando l’usanza si concludeva con un riequilibrio di sottosegretariati e con la pronuncia dell’immortale formula coniata da Rumor: «Molto è stato fatto, molto resta da fare». Ma anche la cosiddetta Seconda ebbe le sue verifiche, che di solito coincidevano con i momenti peggiori. Tanto che di volta in volta si cercarono sinonimi, tipo «nuovo inizio», «fase 2» o anche «cabina di regia», inventata da Fini e Follini per far fuori Tremonti nel 2004. In realtà, l’esigenza della verifica indica che non solo la coesione tra i partiti, ma soprattutto il legame tra l’opinione pubblica e l’esecutivo è ridotto al minimo. La maggioranza vacilla, le poltrone traballano, i ministri barcollano, e si cerca di tenere tutto insieme «aprendo un tavolo», «cercando convergenze», «ritrovando unità programmatica». Formule esoteriche per indicare che nel rapporto con gli elettori qualcosa non va. A maggior ragione la regola vale per un governo privo di un diretto mandato popolare, come quello presieduto sia pure dignitosamente da Enrico Letta. Nato per giunta in circostanze politiche del tutto diverse, nei giorni in cui c’erano ancora la segreteria Bersani e il Pdl. Ora i bersaniani sono all’opposizione interna, il Pdl si è scisso, Berlusconi è uscito dalla maggioranza ma è rientrato nel gioco grazie all’accordo con Renzi. Forse, più che conciliaboli nelle segrete stanze, occorrerebbe fare chiarezza in pubblico, a cominciare dalle aule parlamentari. Anche perché finora le «verifiche» non hanno portato fortuna. Il Natale 1999 fu funestato da quella che i giornali definirono «la verifica del panettone»: per giorni si scrutarono i segni celesti, ci si interrogò su un’improvvisa visita di Cossiga ad Hammamet da Craxi (cui restava da vivere meno di un mese), Pisanu allora capogruppo alla Camera di Forza Italia parlò ermeticamente di «calendario politico iugulatorio»; alla fine il governo D’Alema imbarcò qualche nuovo ministro, e andò allegramente incontro alla catastrofe delle regionali di primavera. Nel 2003, dopo la sconfitta alle provinciali di Roma, An chiese la fatale verifica. Oltre a Tremonti, finirono sotto accusa il ministro delle Infrastrutture Lunardi, che si difese vantando «il gran lavoro fatto per la Salerno-Reggio Calabria», e il ministro della Salute Sirchia, che fece filtrare un argomento definitivo: «Cosa vuole Storace? Abbiamo fatto regolarmente avere alla Regione Lazio tutte le dentiere richieste!». Nella verifica della notte dell’11 luglio 2004, si rividero al tavolo di Palazzo Chigi l’ex presidente delle Ferrovie Necci, il repubblicano Del Pennino, il socialdemocratico Vizzini; in tutto i convitati erano 37, più del doppio dei cardinali dell’interminabile conclave di Viterbo (che erano 18, di cui tre però morirono durante i lavori, iniziati nel 1268 e conclusi nel 1271 con l’elezione di Gregorio X); esasperato, a notte fonda Berlusconi — che alla sola parola «verifica» si innervosiva — minacciò di far togliere le sedie. Non invitato, il vescovo Velasio De Paolis, segretario del supremo tribunale della Segnatura Apostolica, ammonì in un’intervista: «Verifica sì, crisi no». Letta oggi sottoscriverebbe. Il secondo governo Prodi, quello nato dalla vittoria striminzita del 2006, fu tutto una verifica. Già a giugno, dopo poche settimane, si rese necessario un primo ritiro in un resort di lusso a San Martino al Campo, che rimase nelle cronache per il sontuoso menu: molto esecrato in rete il «riso delicato con piccione e tartufo». Incurante dell’avvertimento, nel gennaio 2007 Prodi portò i ministri a verificare la salute dell’esecutivo alla reggia borbonica di Caserta. In una visita notturna, i ministri credettero di riconoscere negli affreschi i sosia di Mastella e di Di Pietro. D’Alema non apprezzò: «Sembra di essere in gita scolastica». L’ultima verifica della Prima Repubblica si tenne il 9 marzo 1991. Il presidente del Consiglio Andreotti pose agli alleati di governo tre questioni: la disoccupazione giovanile; i poteri delle Regioni; il bicameralismo perfetto. «Non possiamo continuare con due Camere che fanno le stesse cose, in questo modo si perde troppo tempo» fu il suo ragionamento. Il segretario del Psi Craxi ricordò di aver posto per primo la questione, ai tempi del suo ingresso a Palazzo Chigi. Era il 1983. Oggi i punti della verifica chiesta dalla maggioranza al governo Letta sono esattamente gli stessi.
da Il Corriere della Sera