attualità, politica italiana

"Una classe non dirigente", di Valerio Castronovo

Al terz’ultimo posto, nell’Europa dei Ventotto, soltanto prima di Bulgaria e Romania: così l’Italia figura, quanto a efficacia delle politiche governative, nella classifica stilata dall’Unione europea. Può darsi che a Bruxelles abbiano calcato la mano, ma non più di tanto.

Da troppo tempo la reciproca delegittimazione dei due principali partiti della Seconda Repubblica, con uno strascico di acri risentimenti e veti incrociati (ma anche di logoranti contese intestine), ha determinato una situazione deprimente di stallo dell’attività legislativa sulle questioni più importanti e una penosa impotenza decisionale, nell’esercizio del proprio mandato, degli esecutivi di diverso colore avvicendatisi di volta in volta sulla scena. Si tratta non solo di una seria anomalia sul piano istituzionale ma di un’ipoteca tanto più grave e deleteria nel mezzo di una persistente emergenza economica e sociale, che avrebbe dovuto imporre, per venirne a capo, un forte impegno politico e quindi scelte coraggiose e appropriate, misure concrete ed efficaci.

Senonché l’Italia si trova a pagare i costi, non da oggi, ma adesso con un impatto sempre più pesante, dovuti alla mancanza di un’autentica classe dirigente. Ossia, di un ceto politico che coniughi a un alto senso dello Stato una salda cultura di governo e una coerente visione di prospettiva.

Non è con questo, beninteso, che si voglia accomunare indistintamente quanti svolgono funzioni pubbliche rappresentative in una sorta di “casta” amorfa e autoreferenziale. Tra loro vi sono singoli esponenti animati da fervore di propositi e da spirito costruttivo. Tuttavia, a giudicare dall’esperienza degli ultimi anni, non si può certo dire che la classe politica, nel suo insieme, abbia dato prova di limpida trasparenza, di attitudini innovative, di sagace e provvida rispondenza alle esigenze cruciali del Paese. Né il fatto che vi siano nella società italiana robuste corporazioni d’interessi arroccate nella conservazione dell’esistente, può costituire in alcun modo un attenuante; al contrario, è un motivo in più a carico del ceto politico, poiché era soprattutto di sua pertinenza il compito di eliminare privilegi inammissibili e ingombranti rendite di posizione. Ciò che evidentemente non ha saputo fare.
D’altra parte, clientelismo e assistenzialismo, alimentati dai rubinetti della spesa pubblica, sono stati per tanto tempo altrettanti strumenti a portata di mano e ampiamente utilizzati nelle politiche di governo per rimandare il momento di fare i conti con la realtà, con i problemi più duri e scabrosi destinati perciò a incancrenirsi, e per gestire intanto, in santa pace, grazie a una crescente dissipazione di risorse, l’organizzazione del consenso. Non avendo posto fine del tutto a questa prassi, e riproducendo da un lato con qualche variante schemi ideologici del passato e ripetendo dall’altro copioni leaderistici esclusivamente personali, l’establishment politico subentrato alla ribalta dopo l’epilogo della Prima Repubblica ha finito così per appiattirsi e atrofizzarsi, col risultato di eleggere a catalizzatore del proprio agire il tatticismo o l’opportunismo, anziché il conseguimento di determinati obiettivi prioritari d’interesse collettivo.

Questo stagnante immobilismo ha reso perciò estremamente impervio, in mancanza di adeguate riforme strutturali, l’itinerario del nostro Paese nell’ambito dell’Unione economica e monetaria.

Sino a poco tempo fa sembrava che il federalismo regionale potesse diventare, attraverso l’opera dei corpi intermedi di rappresentanza, il vivaio per lo sviluppo sia di nuove competenze e sperimentazioni progettuali sia di promettenti rapporti fra le istituzioni pubbliche periferiche e il mondo dell’impresa, del lavoro e delle professioni. Così purtroppo non è avvenuto. Anzi, alla fiscalità e alla congerie normativa e burocratica già esorbitanti dell’amministrazione centrale sono venute sommandosi quelle di nuovo conio degli enti locali. Oltretutto è prevalsa in genere una navigazione di piccolo cabotaggio, inquinata in numerosi casi dalla lebbra tangentizia tant’è che oggi sono ben diciotti i Consigli regionali che hanno dei loro componenti indagati dalla magistratura. Si è così dissolta la prospettiva di un’azione propulsiva dal basso, dal vivo delle comunità territoriali.
Quella rimasta tuttora in campo appare in sostanza una classe politica priva del carisma e dei requisiti di una vera e propria classe dirigente. Non ha promosso un fecondo confronto di idee, né mobilitato nuove energie, ma soprattutto non ha assunto risolutamente la responsabilità e i relativi rischi di decidere e di fare, che sono i fondamenti intrinseci all’esercizio di un’effettiva leadership.

In questo desolante stato di cose, e con un Paese prostrato da una lunga crisi, il pericolo che corrono le nostre istituzioni, se non si manifesterà un mutamento di rotta e un ricambio generazionale, è duplice: da un lato, che la diffusa insofferenza verso un sistema di governo rivelatosi per lo più opaco e inconcludente si trasformi tout court in una rancorosa deriva antipolitica, in una sfiducia pregiudiziale nella democrazia parlamentare, sulla spinta di una prorompente ondata di violenza verbale settaria e di un populismo anarcoide; dall’altro, che cresca di fatto il potere condizionante, sui processi legislativi e su quelli attuativi dell’esecutivo, di un’oligarchia burocratica incardinata nei gangli dell’apparato statale.

da www.ilsole24ore.com