LE AZIONI recenti del Movimento 5 Stelle fanno impressione: contestazioni plateali e violenze nell’emiciclo del Parlamento, insulti e minacce al capo dello Stato, alla presidente della Camera, ad avversari politici e giornalisti, solo perché critici nei confronti dei pentastellati.
In parallelo, indipendentemente da Beppe Grillo e dai suoi, si moltiplicano le manifestazioni e gli attacchi razzisti contro la ministra Cécile Kyenge. Molti commentatori guardano con preoccupazione a questi fatti, e c’è chi vi scorge un segnale premonitore della rinascita del fascismo. Va detto però che l’Italia non detiene il triste privilegio di questa sindrome inquietante.
Al di là delle Alpi assistiamo a una radicalizzazione delle proteste di piazza. Il 2 febbraio, gli oppositori della legge che autorizza il matrimonio di coppie dello stesso sesso hanno sfilato pacificamente in difesa della famiglia tradizionale; ma già una settimana prima, domenica 26 gennaio, le vie di Parigi avevano assistito a un evento senza precedenti: una manifestazione antigovernativa intitolata “Giorno della collera”, che ha radunato una folla eterogenea di cattolici integralisti, reazionari dichiarati, militanti di estrema destra, amici del comico antisemita Dieudonné, ma anche simpatizzanti dell’ultrasinistra. I manifestanti, non paghi di attaccare il presidente della Repubblica, hanno contestato la sua legittimità, e nella capitale francese, per la prima volta in modo così massiccio dalla fine della seconda guerra mondiale, sono risuonati slogan esplicitamente antisemiti. Di fatto, gli atti e gli insulti razzisti si stanno moltiplicando in ogni direzione: nei confronti di ebrei e musulmani, o contro la ministra della Giustizia Christiane Taubira, francese della Guyana.
Si tratta di eventi diversi che certo non possono essere assimilati tra loro. Lo stesso Movimento 5 Stelle ad esempio presenta una forte ambivalenza ideologica e politica, con un misto di temi della sinistra classica sul piano sociale e di quella postindustriale sulle questioni dell’ambiente e dell’acqua, mentre rivendica una forma diversa di democrazia, benché guidato da un leader quasi onnipotente. E al tempo stesso è combattuto — fenomeno classico per questo tipo di movimenti — tra una funzione di canalizzazione della protesta, legata alla sua stessa accettazione del principio elettorale, e la volontà di rimanere un outsider che infrange le regole, sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di essere considerato un partito come gli altri. In Francia, i movimenti di piazza sfuggono per il momento a ogni rappresentanza politica. Il partito dell’ex presidente Sarkozy, l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) ha condannato la manifestazione del 26 gennaio, ma è diviso sull’atteggiamento da adottare nei confronti dei difensori intransigenti della famiglia tradizionale. Martine Le Pen, che in vista di conquistare il potere si è impegnata in una strategia di responsabilizzazione, dà prova di grande prudenza a fronte di queste mobilitazioni.
Ma al di là delle differenze, indubbiamente il clima che si è instaurato, in Italia come in Francia, è pesante. Ormai non si tratta più del sempiterno allarme per l’ascesa dei populismi in Europa. Quello che vediamo potrebbe essere l’inizio di una disgregazione generalizzata dei fondamenti stessi delle nostre società democratiche. Questa dinamica si spiega con la congiunzione sempre più esplosiva di diversi fattori: l’insufficiente crescita economica e le sue conseguenze sociali — in particolare l’alto livello di disoccupazione e le crescenti disuguaglianze — alimentano le tensioni, il ripiegamento, la diffidenza generalizzata, la ricerca di capri espiatori: gli immigrati, gli ebrei, ma anche l’Europa, che a molti appare al tempo stesso lontana e intrusiva, poco democratica e oramai incapace di assicurare prosperità e protezione. Le istituzioni — parlamentari in Italia, semi-presidenziali in Francia — girano a vuoto; l’astensionismo e il discredito dei partiti guadagnano terreno, e col disinteresse per la cosa pubblica cresce l’attesa del leader forte — l’uomo della Provvidenza. Le classi dirigenti — politica, economica, sociale, culturale, intellettuale — sono delegittimate, contestate, talvolta odiate.
Davanti a questo quadro cupo, è il caso di parlare di un ritorno agli anni Venti e Trenta del secolo scorso? A mente fredda, dobbiamo ricordare che la Storia non si ripete, anche se balbetta. Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva. La soluzione non verrà soltanto dalla “società civile”, ritenuta per sua natura buona e virtuosa, benché percorsa da orientamenti contraddittori; dipenderà anche dai responsabili politici, economici, sociali e culturali. Spetta a loro adottare comportamenti esemplari, promulgare riforme di vasta portata nei rispettivi Paesi e in Europa, elaborare un progetto, ricostruire una narrativa mobilitante. Nella speranza che non sia troppo tardi.
da La Repubblica