Un po’ per vocazione e un po’ per necessità, il ritorno dei giovani in agricoltura ai tempi della crisi è come un Giano bifronte. I numeri non sono da capogiro: secondo i dati elaborati da Inea (l’Istituto nazionale di economia agraria), tra il 2000 e il 2010 i proprietari di aziende agricole con meno di 40 anni sono scesi del 40,8 per cento, più della media (37,4) e più di chi ha già compiuto 65 anni (-38,3 per cento).
Solo negli ultimi anni si sono registrati alcuni importanti segnali di ripresa, con gli under 34 stabili al 20 per cento sul totale degli occupati e un piccolo aumento al Sud dove quelli tra 18 e 35 anni sono cresciuti del 5,8 per cento (dati Inea). Secondo i dati di InfoCamere, inoltre, tra il primo e il secondo semestre 2012 le imprese agricole condotte da giovani con meno di 35 anni sono cresciute in tutte le regioni italiane.
Ma al di là di questi timidi segnali di ripresa, che cosa c’è dunque di vero nel tanto chiacchierato ritorno dei giovani all’agricoltura? «Innanzitutto le ragioni — spiega Roberto Henke, ricercatore di Inea —: in tempi di crisi l’agricoltura fa da cuscinetto e bilancia la mancanza di opportunità migliori, soprattutto al Sud, dall’altra parte però cresce la fetta di quei giovani che sceglie quest’attività in maniera consapevole e con ottica imprenditoriale».
Anche grazie a un immaginario collettivo che è cambiato: da settore arretrato e poco attraente, oggi l’agricoltura è vista come una scelta di rottura e una filosofia di vita. Non solo: «Oggi l’agricoltore è un imprenditore a tutti gli effetti che rischia il capitale e assume dipendenti, quindi con caratteristiche appetibili anche per i giovani», prosegue Henke.
Ma chi è questo giovane agricoltore? «Spesso è colui che fa innovazione, non solo sul prodotto, come è successo ad esempio con il biologico, ma anche sui servizi offerti non necessariamente legati alla produzione agricola». Ovvero: accoglienza ed enogastronomia, servizi educativi come le fattorie didattiche e servizi terapeutici, costruiti spesso in accordo con Asl e comunità di recupero, dal lavoro agricolo alla ippoterapia.
«Certo sono fenomeni di nicchia ma molto significativi e in crescita, che forniscono lavoro a competenze diverse da quelle agricole», precisa Henke. Rispetto a nonni e padri, il giovane agricoltore ha investito di più nella formazione universitaria: se solo il 6 per cento dei proprietari tra i 60 e i 69 anni di età può vantare di avere una laurea, la percentuale cresce al 10,6 per cento per la fascia di età compresa tra i 30 e i 39 e al 14% per quella compresa dai 25 ai 29 anni. La maggior parte di loro tuttavia non ha un titolo di studio coerente con l’attività agricola, mentre dall’altra parte prosegue il boom delle iscrizioni alle facoltà di scienze agrarie, forestali e alimentari: +45 per cento dal 2008 ad oggi secondo Coldiretti.
Insomma, il ritorno dei giovani all’agricoltura c’è, anche se è ancora troppo presto per poter parlare di una vera e propria inversione di tendenza, con il problema del ricambio che non accenna a ridursi: su mille agricoltori, il rapporto uscite-entrate resta di 375 a 77 (dati Inea).
Colpa dei costi della terra troppo elevati, in Europa ma ancora più in Italia, che di fatto rendono l’accesso al mestiere praticamente impossibile a chi non dispone già di un terreno, e di una bassa redditività (-4,4 per cento nel 2012 secondo i dati dell’Annuario dell’agricoltura italiana dell’Inea). Le misure di sviluppo rurale hanno smosso qualcosa: dal 2000 al 2013 sono 68 mila i giovani agricoltori italiani che hanno beneficiato degli stanziamenti comunitari previsti dalla Pac, la politica agraria comune, per un totale di 1,5 miliardi di euro. Piccoli passi verso un futuro più verde.
Il corriere della sera 30.01.14