Bisognerebbe pagare a chi lavora almeno un salario minimo? Ci dovrebbe essere una cifra – che so, 5 euro all’ora – al di sotto della quale sarebbe illegale pagare un lavoratore? Suppongo che voi, pensando al vostro futuro di lavoratori, non avreste dubbi a dire di sì: non vogliamo essere sfruttati, ci dovrebbero dare almeno x euro… Ed è giusto che lo Stato, in una situazione in cui il potere negoziale dei datori di lavoro è superiore a quello dei lavoratori (vista la crisi che c’è in giro), si preoccupi di piantare un paletto per stabilire un livello di compenso al di sotto del quale non è giusto andare.
Sì, ma… Gli economisti, come il Grillo parlante, hanno l’abitudine di fare obiezioni anche a cose che sembrano giuste. E la prima obiezione che farebbero è questa: se si introduce un salario minimo si perdono posti di lavoro. Perché si perdono? Basta tornare alla legge della domanda e dell’offerta. Supponiamo che voi abbiate una bancarella al mercato e vogliate vender patate. Se mettete un cartellino di un euro al chilo, sapete che ne venderete, mettiamo, 100 chili. E se scrivete sul cartellino 2 euro, quante ne venderete? Certamente di meno. Ci saranno meno compratori invogliati da quel prezzo.
La stessa cosa succede se volete “vendere”, invece di patate, un’ora del vostro lavoro. Se dite: lavoro per 5 euro all’ora, potrete trovar da lavorare per un certo numero di ore. Ma se dite: voglio almeno 10 euro all’ora, trovate meno domanda delle vostre ore di lavoro. Coloro che sono avversi a un minimo salariale, insomma, dicono: se lo introducete, ci saranno meno ore lavorate e si perderanno posti di lavoro.
É giusta questa obiezione del “Grillo parlante”? Andiamo intanto a vedere quel che succede nella realtà. In quanti Paesi lo Stato ha stabilito un salario minimo? In molti, come vedere dal grafico: nell’Unione europea, su 28 Paesi ben 21 hanno introdotto un salario minimo, sfidando le obiezioni del Grillo parlante (in Italia ci sono minimi salariali per molte categorie di lavoratori, ma non c’è un minimo nazionale valido per tutti). E anche fuori dell’Europa e dell’America ci sono molti Paesi con questa norma.
Certamente, si tratta di una norma che interferisce col libero mercato. Non esiste un prezzo minimo per le patate o il taglio dei capelli o il biglietto del cinema. Perché, allora, esiste questa norma per il lavoro? Non basta dire che il lavoro non è un bene qualsiasi. Bisogna argomentare un po’ di più.
In effetti, il lavoro è qualcosa di più rispetto agli altri beni. E i governi devono rispondere ai desideri dei cittadini, specie quando l’economia è debole e le diseguaglianze – le distanze fra ricchi e poveri – si allargano. Ma, anche se il lavoro è, come certamente è, qualcosa di più rispetto agli altri beni, l’obiezione resta. Si favoriscono veramente i lavoratori se per effetto dell’aumento del salario minimo si perdono posti di lavoro? La teoria economica dice che si perdono, ma gli economisti hanno troppo spesso l’abitudine di ragionare su modelli e ignorare la realtà.
Una vecchia battuta dice di un economista che ha perduto le chiavi della macchina e, nella notte, le cerca alla luce di un lampione. Passa un poliziotto che lo vede andare avanti e indietro intorno al lampione e gli chiede che cosa fa; l’economista gli spiega che cerca le chiavi della macchina. Il poliziotto dice: «ma dov’era quando è uscito dall’auto?». E l’economista risponde: «ero là», additando l’auto parcheggiata dieci metri più avanti. «Ma allora perché non le cerca là?», dice il poliziotto. «Perché qui c’è più luce», è la replica.
Allora molti economisti hanno cercato di far meglio, di non fermarsi alla teoria e fare un po’ di ricerche sul campo. Visto che molti Paesi hanno introdotto da molti anni e a più riprese modificato il salario minimo, perché non andare a vedere quel che è successo? É possibile, analizzando i dati con tante più o meno sofisticate tecniche statistiche, dirimere la questione: l’adozione del salario minimo ha danneggiato o no l’occupazione?
La risposta è in genere favorevole all’introduzione di un livello minimo di salario. Questa adozione ha avuto effetti sfavorevoli solo modesti, in molti casi non ha danneggiato affatto l’occupazione e in altri casi l’ha addirittura favorita. A questo punto gli economisti hanno dovuto riprendere in mano la cassetta degli attrezzi per affinare la teoria in modo che possa adattarsi meglio ai comportamenti riscontrati sul campo.
Un primo adattamento è questo. Mettiamo che in un mercato libero il salario che si verrebbe a creare spontaneamente, per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, sia di 6 euro l’ora. Ma nella realtà – sempre una realtà lasciata a se stessa – si riscontrano salari di 5 dollari l’ora. Perché? Perché ci sono degli “attriti” nel mercato del lavoro. Se un lavoratore vuole lasciare un posto che rende poco e cercarne un altro, ci sono costi legati a questa ricerca: deve darsi da fare, chiedere a destra e a sinistra… Allora, data l’esistenza di questi costi, rimane dov’è e al datore di lavoro rimane il vantaggio di pagare 5 per un’ora di lavoro che, in un mercato privo di “attriti”, costerebbe 6. Ecco che in quel caso lo Stato sarebbe giustificato a introdurre un salario minimo di 6.
Ci possono poi essere altre ragioni: per esempio, con un salario minimo più alto ci sono maggiori costi per l’impresa ma anche più vantaggi. Se il lavoratore è più contento, ci sarà meno andirivieni nella forza lavoro: dover frequentemente assumere e formare lavoratori è un costo e una noia per l’impresa. Insomma, il salario minimo, purché fissato a livelli adeguati – come la minestra di “Riccioli d’oro”, nè troppo freddo nè troppo caldo, nè troppo alto nè troppo basso – può far più bene che male.
Il Sole 24 Ore 26.01.14