L’Italia dovrà nei prossimi dieci anni affrontare la maggiore operazione di bonifica della propria storia, ossia lo smantellamento definitivo (il cosiddetto decommissioning) delle quattro ex centrali nucleari di Trino Vercellese, Caorso, Latina e Garigliano, dell’impianto di Bosco Marengo, nonché delle installazioni Enea di Saluggia, Casaccia e Rotondella.
Un’operazione complessa, che si concluderà — almeno si spera — con la costruzione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, il sito (in superficie) che ospiterà tutte le scorie nazionali a bassa e media radioattività (e temporaneamente anche quelle ad alta radioattività). Accanto al deposito nazionale è prevista anche la realizzazione di un grande parco tecnologico, che ospiterà centri di ricerca e sperimentazione nel settore dei rifiuti, delle bonifiche ambientali in genere. E l’Italia ne ha davvero estremo bisogno, fin dai tempi di Seveso, per arrivare a situazioni esplosive e pericolosissime come quelle della Campania (Terra dei Fuochi).
Si tratta complessivamente di un’operazione da circa 6,5 miliardi di euro, di cui qualcosa è già stato speso negli ultimi quattro anni passati. A chi fa capo questa operazione? Alla Sogin, una società di Stato, completamente pubblica, derivata dalla scissione dell’Enel oltre 10 anni fa, con circa 800 dipendenti e sede in Roma centro. Le risorse finanziarie per fare tutto ciò stavolta ci sono, sono disponibili pronta cassa: vengono infatti direttamente dalla bolletta elettrica alimentata da anni da ogni cittadino che versa una cifra a questo per lo scopo.
È una grande occasione di lavoro per la ripresa economica, migliaia di posti di lavoro specializzati, è una grande opportunità di qualificazione delle imprese italiane (Ansaldo Nucleare, Saipem, Demont, ecc.) che potrebbero prepararsi per affrontare il mercato europeo e mondiale dello smantellamento delle centrali nucleari che verranno dismesse per vetustà. Allo smantellamento saranno destinati investimenti per decine e decine di miliardi di euro.
C’è però un grande punto interrogativo: dovuto alla mancanza di ogni esperienza operativa, dato che in tutti questi anni non siamo riusciti ad avviare una fase davvero esecutiva. Cosa è stato fatto? Come al solito la principale attività e motivo di impegno ha riguardato la lotta per le poltrone e i ruoli. Il problema purtroppo non si è fermato qui con la prevista chiusura delle centrali nucleari ma è giornalmente riprodotto dall’accumularsi di scorie radioattive ogni volta che viene eseguita una tac in ospedale o in un laboratorio. Per questo in alcuni settori industriali è necessario affrontare con celerità quotidiana il problema del deposito.
Veniamo al caso del deposito nazionale definitivo e annesso parco tecnologico. Innanzitutto la normativa per la definizione del progetto (criteri di localizzazione, Autorità di controllo, e altro ancora) non è definita. Ben tre Governi hanno avuto il compito di fissare il quadro normativo. Nessuno ha fatto onore all’incarico. Ogni volta si ricomincia con le audizioni parlamentari delle parti interessate e se si vanno a leggere i resoconti da anni troviamo sempre le stesse cose. Forse basterebbe copiare ciò che hanno già realizzato i principali paesi europei.
I punti possono essere così definiti: attivare un sistema di coinvolgimento delle popolazioni interessate; organizzare un dibattito pubblico “alla francese”; ottenere il consenso o dissenso delle popolazioni interessate con trasparenza e obiettività; inserire nelle commissioni preposte alle valutazione persone di provata capacità professionale nei diversi comparti toccati da un progetto di tali dimensioni; definire tempi certi di autorizzazione nel rispetto delle normative per tutte le parti in causa.
Nell’insieme un compito davvero arduo. Se fallissimo il risveglio potrebbe rivelarsi tragico.
La Repubblica 20.01.14