C’è qualcosa di anomalo nel confronto in atto sull’educazione, che si manifesta con maggiore evidenza in quei contesti, come quello italiano, nei quali da troppo tempo si è rinunciato a sviluppare una riflessione originale ed autonoma circa il profilo culturale che si vorrebbe fosse generalmente posseduto dalla generalità della popolazione e le soluzioni educative che potrebbero consentire il conseguimento di tale intento. Nello sviluppo storico dell’educazione occidentale l’indicazione di traguardi ha anticipato l’assunzione di determinate caratteristiche dell’organizzazione educativa e delle pratiche didattiche. Ciò non significa che fossero enunciati principi, e tantomeno regole, uniformemente seguiti, né che vi fosse da parte degli educatori la medesima consapevolezza degli effetti che sarebbero potuti derivare dalla loro attività,ma che all’educazione si riconosceva una funzione di concausa nei processi di trasformazione sociale. Il grande sviluppo dell’educazione scolastica che ha consentito negli ultimi secoli di assicurare crescenti opportunità d’istruzione per i bambini e i ragazzi, considerato dal punto di vista che prima s’indicava, quello dell’elaborazione di un profilo culturale diffuso, appare come la realizzazione di scenari delineati nelle grandi utopie che hanno rappresentato una parte importante del pensiero europeo dalla metà del secondo millennio. Attraverso l’utopia ci si poteva riferire a una realtà costruita per negazione di quella che costituiva la comune esperienza: se l’analfabetismo rappresentava la condizione più frequente, gli abitanti dei non-luoghi dell’utopia si distinguevano per il possesso di una cultura alfabetica; se l’educazione formale era per lo più rivolta a strati favoriti della popolazione maschile, nell’utopia tutti potevano fruirne, senza distinzione di classe o di genere;se il tempo della vita era in massima misura assorbito dal lavoro, si affermava l’idea che una uguale rilevanza dovessero avere il riposo e le attività rivolte a coltivare la sensibilità e l’intelligenza di ciascuno; se la conoscenza era considerata una prerogativa individuale,se ne affermava l’utilità per il miglioramento delle condizioni di vita; e così via. Ciò che interessa rilevare riflettendo sull’anomalia del confronto educativo in corso è che mentre negli scenari utopistici determinate caratteristiche della popolazione erano considerate necessarie per la coerenza dell’insieme della proposta di assetto sociale, da qualche tempo si tende ad affermare il contrario, e cioè che gli indirizzi dell’attività educativa devono essere congruenti a scelte che sono già operanti nei diversi contesti sociali,in particolar modo nelle attività produttive. Risulta evidente che è cambiata sostanzialmente la concezione del tempo: mentre il grande sviluppo dell’educazione formale è da considerarsi l’effetto di progetti per il lungo periodo, da qualche tempo sembra essere stato abbandonato l’intento progettuale, e sostituito da una nozione funzionalista dell’offerta di apprendimento. In altre parole, le scelte educative non sono più coerenti con un disegno a lungo termine volto a definire il profilo della popolazione, ma rispondono alle esigenze di breve periodo che si manifestano nel sistema produttivo. Le concezioni educative elaborate nell’ambito dell’utopia classica hanno anticipato il corso di eventi che si sarebbero osservati nei secoli successivi, mentre nelle condizioni attuali si vorrebbe realizzare un’improbabile concomitanza tra le richieste del mercato del lavoro e l’offerta di apprendimento del sistema d’istruzione formale. La rinuncia a interpretare l’educazione secondo una logica autonoma non è l’ultima ragione della crisi che, in varia misura, ha investito i sistemi scolastici dei Paesi industrializzati. Anche quando i dati derivanti da rilevazioni comparative sembrano segnalare l’esistenza di condizioni migliori, ci si dovrebbe chiedere se a posizioni più favorevoli in graduatoria corrispondano risultati educativi capaci di configurare un profilo innovativo di cultura della popolazione, o se i livelli più elevati siano da porre in relazione solo a migliori condizioni organizzative e ad apparati ideologici più coinvolgenti. Non sarebbe inutile chiedersi, per esempio, quanta parte abbiano avuto le condizioni organizzative e la pressione ideologica nel consentire ai sistemi scolastici di alcuni Paesi dell’estremo oriente di scalare le posizioni più elevate nelle graduatorie dell’ultima indagine Ocse-Pisa. E, soprattutto, ci si dovrebbe chiedere se una competitività così spinta da far accettare, oltre a un orario scolastico lungo, alcune ore ulteriori di pre e di post scuola, con quel che ne consegue in termini di resistenza allo sforzo prolungato, corrisponda a una concezione educativa che si è disposti a riconoscere come preferibile o solo ad accettare come selezione de facto. Ma, in un caso e nell’altro,non si capisce quale sia il disegno culturale, se non per ciò che riguarda l’utilità che dagli studi si può trarre nel breve termine. In Italia la crisi è più grave non solo per l’eclissi di progettualità che da troppo tempo caratterizza il sistema educativo, ma anche per il crescere della distanza tra le soluzioni didattiche e organizzative del nostro sistema scolastico rispetto a quello degli atri paesi industrializzati. Mentre si discetta in un latinorum da Don Abbondio di soluzioni tecniche per questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema, sembra che nessuno si preoccupi di capire che cosa stia accadendo nelle scuole, quali siano le difficoltà che gli insegnanti incontrano nel loro lavoro quotidiano, di che cosa ci sia realmente bisogno in un disegno di lungo termine, che cosa di culturalmente significativo bambini e ragazzi dovrebbero saper fare non solo al momento, ma nella lunga prospettiva di vita che li attende.
L’Unità 18.01.14