Considerate se questa è una bambina… Era una bambina, si chiamava Israa al Masri. È stata filmata, secondo quello che se ne sa, lo scorso sabato, pochi minuti prima di morire di fame. La fotografia è stata inoltrata, con il video da cui è tratta, all’Associated Press da Sami Alhamzawi, un venticinquenne abitante del campo di Yarmuk, a sud di Damasco. Quattro giorni fa era stata pubblicata dal Times of India
e da altri siti, ieri l’Independent l’ha ripubblicata con un lungo servizio sulla morte per inedia nella località siriana assediata. Yarmuk è da più di mezzo secolo un insediamento di profughi palestinesi, e vi abitavano poco meno di 200 mila persone. Allo scoppio della guerra civile, benché la maggioranza dei suoi abitanti cercasse di tenere una neutralità, ci furono scontri armati fra fazioni di fautori e di nemici di Assad, e le condizioni si fecero così dure che, dopo tre anni, solo in 18 mila, i più poveri di risorse, soprattutto vecchi donne e bambini, sono rimasti. A loro si sono aggiunti, in un numero incalcolabile ma di decine di migliaia, siriani a loro volta fuggiti da città e case distrutte e
minacciate.
Yarmuk è stretta in un assedio spietato dall’esercito “lealista”, che impedisce l’ingresso di aiuti umanitari, di cibo, coperte, medicine, bombarda le case, tiene sotto il tiro dei cecchini le radure in cui madri disperate si attentano a strappare erba, malva, foglie di ibisco! Da novembre, dicono, sono morte di fame e disidratazione 50 persone. Donne sono morte di parto, non c’è elettricità, l’ospedale non può lavorare.
L’esercito di Assad denuncia la presenza nel campo di milizie ribelli e islamiste, e i negoziati per il cessate il fuoco o per aprire un corridoio umanitario vedono paradossalmente contrapposti i dirigenti di Hamas a quelli di Hezbollah e iraniani. Gli abitanti hanno mangiato gli animali domestici, hanno bruciato gli infissi per scaldarsi, si sono rassegnati, si dice, a sacrifici più terribili e indicibili, perché qualcuno sopravvivesse. Del resto non ci sono testimoni
esterni in un luogo destinato deliberatamente allo sterminio e precluso anche ai convogli sanitari impegnati a portare il vaccino contro la polio, ritornata in Siria, com’è appena successo. Ho letto che a Yarmuk ci sono insegnanti che insistono a fare scuola a bambini, smunti e sfiniti gli uni e gli altri.
Yarmuk è una voragine, ma anche nel resto della Siria, dove il conto delle vittime è salito di altre migliaia dopo la crisi delle armi chimiche, si muore oltre che di bombe e proiettili, di fame freddo e malattie curabili che diventano fatali, e gelo e fame sono sfruttate deliberatamente come armi di una guerra che non vuole tregua. A metà dicembre, il medio oriente è stato colpito da una tormenta di neve eccezionale, che ha infierito su un popolo di sfollati ed esausti. Bambini e vecchi sono morti di freddo perfino nei campi dei rifugiati fuori dal paese, in Giordania, in Libano, in Egitto. La Siria, alla vigilia di una trattativa patrocinata internazionalmente, il 22 gennaio a Montreux, sul lago di Ginevra, è più che mai in
preda a una guerra a oltranza di tutti contro tutti che travolge la popolazione civile. Nell’ultimo periodo, in coincidenza con una recrudescenza del terrore in Iraq, dove lo scontro ingovernato fra sciiti e sunniti si è tramutato, nel centro del paese, in quello fra governo e qaedismo, è divampata in Siria la guerra fra i ribelli islamo-nazionali e le armate del jihadismo internazionale, soprattutto dell’ISIL, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. La moltiplicazione dei contendenti e il richiamo che la Siria dilaniata esercita su bande e uomini dell’universo islamista, oltre agli interessi di innumerevoli potenze di ogni rango che vi giocano e vi vengono giocate, hanno messo al bando la pietà. L’Unicef stima che siano più di 5 milioni e mezzo i bambini bisognosi di aiuto. A dicembre, Amnesty International ha reso noto che «gli stati europei hanno dato la disponibilità per accogliere solo lo 0,5 % dei profughi (12.000 persone rispetto ai 2.300.000 che hanno lasciato il paese)». Poi ha aggiunto che «dovrebbero abbassare la testa per la vergogna».
Tutte queste parole, e le altre che occorrerebbe dire e accompagnare con le mappe, le cifre, il dizionario dei barili esplosivi e il registro delle decapitazioni di musulmani di un’altra affiliazione e di cristiani cui viene conficcato il crocifisso sul cadavere — sono necessarie e insieme superflue, non appena torniamo a guardare la fotografia. Lì si dice tutto questo, e qualcosa d’altro, che non si può dire. Ci sono alcuni di noi che, quasi per professione, o per averlo fatto altre volte, o per chissà quale altra combinazione, si trovano a commentare immagini come questa, e a interrogarsi sulla sincerità propria e di chiunque guardi con loro. Se la si fosse studiata, questa rappresentazione dell’infanzia tradita e violata, non avrebbe saputo essere più eloquente. Uso a posta questo termine, eloquenza, che è una perversione del dolore, della commozione e della rivolta. Gli occhi della bambina, la bocca riarsa e la lingua gonfia, il doppio cerchio del copricapo e della maglia che la avvolgono preparandosi a restarne vuoti: è un manifesto formidabile. Lo stiamo guardando così? E non è vero che i manifesti formidabili del male, del dolore e dell’ingiustizia sono ormai destinati a restare tali, per noi spettatori, a inumidire forse i nostri occhi, ma a tenere ferme le nostre mani? E la bambina Israa, per giunta, non ci sta chiedendo aiuto, non ci sta chiedendo niente. E poi è morta. Guardiamo lei, non la prossima. Lei, anche in questa foto, anche quando è ancora viva, dagli occhi spalancati e le ciglia diventate troppo lunghe, come se non fossero state avvertite della fine, non guarda noi. E caso mai ci guarda da molto lontano, sapendo una cosa che noi non sappiamo del tutto, e che comunque non ci sembra tutto. Ci sembra un’esagerazione, se davvero si pretenda che ne diamo un giudizio. Quella cosa è che il mondo ha raccolto tutte le sue forze, il suo passato e il suo presente, per raggiungere e colpire la piccola Israa al Masri, nel campo di Yarmuk, il 14 gennaio del 2014. Questa esagerazione è la verità, se solo per un momento sappiamo toglierci dal cospetto della fotografia e scivolarle dietro, e guardare anche noi da lì. Poi torniamo al nostro divano e ai nostri affari: era un’esagerazione.
La Repubblica 18.01.14