L’Aquila non è una città morta. Cinque anni dopo il terremoto del 6 aprile, cinque anni dopo quella scossa Richter 5.8 che ha stravolto per sempre una città, cinque anni dopo macerie, zone rosse, militari, passerelle politiche, inchieste, processi, promesse e delusioni, L’Aquila prova a rialzare la testa. Oltre 60 i cantieri aperti nel centro storico: si vedono gru, camion, carriole che portano via calcinacci, sacchi di calce e cemento, operai al lavoro. E si rompe quel silenzio surreale che per anni ha caratterizzato il quinto centro storico più grande d’Italia. Le prime facciate dei palazzi antichi sono tornate a splendere. A fianco di edifici meno blasonati e fortunati che invece ancora per molto tempo saranno ingabbiati da travi di ferro ormai arrugginite. «L’Aquila rinasce» si legge sui teloni stesi sui ponteggi. Un mantra che si ripete un po’ ovunque nel cuore della città. Ma non è facile. I più ottimisti prevedono almeno 10 anni di lavori prima di rivedere rinato il capoluogo abruzzese. I pessimisti ne ipotizzano almeno 25. Ma oltre ai palazzi da ricostruire c’è una città fatta di persone. Il terremoto ha picconato l’intero tessuto sociale, economico e culturale dell’Aquila. E dopo cinque anni di impegno, fatica e speranze, oggi un’altra scossa abbatte la città. L’inchiesta sulle tangenti con l’arresto del vicesindaco, la corruzione ipotizzata fin nelle stanze più alte del Comune e infine le dimissioni irrevocabili del sindaco Massimo Cialente: l’Aquila ci prova a rinascere. Ma sul volto degli aquilani la rassegnazione ha preso il posto della speranza. E la rabbia diventa disillusione.
UN ALTRO SISMA – «È un altro terremoto – dice Betti Leone vice sindaco gerente -: la magistratura dovrà accertare, ma questo fa male all’immagine della città, agli aquilani che si stavano rialzando: L’Aquila non è una città fantasma né morta, è una città ferita e oggi scoraggiata». Sono 5 anni. Il ciclone giudiziario rischia di bloccare tutto quello che finalmente con fatica era partito nell’ultimo anno. «E chi ha combattuto finora – spiega un’aquilana disillusa -, o va via, o smette di combattere, sopravvive e pensa solo a sé». C’è da capirla. Se è vero che il 60% degli aquilani è tornato in casa, non significa che la sua abitazione sia stata rimessa in piedi. Oggi oltre 12mila persone vivono ancora nei quartieri C.A.S.E., quelli costruiti in tempo record intorno alla città subito dopo il sisma. E nelle piccole frazioni la ricostruzione non è mai partita. «Ma i progetti ci sono, mancano i soldi». Un crono-programma del Comune, prevede un miliardo e 200 milioni di euro all’anno per 5 anni. Ma nel 2014 dal governo ne arriverà solo la metà. Con il ministro per la Coesione territoriale Carlo Trigilia che dice: «Il governo non è il bancomat dell’Aquila». Ma, risponde la Leone, «questo è il luogo da cui può ripartire l’economia nazionale».
LA FUGA DALLA CITTÀ – Intanto, la gente va via. I giovani non vogliono restare all’Aquila. E molti anche meno giovani. Sono rassegnati convinti che quella vita prima del 6 aprile 2009 non ci sarà più. Il centro della città segnava la giornata degli aquilani. Il lavoro, i negozi, il caffè, la passeggiata sotto i portici, gli incontri. Oggi i portici sono deserti. In piazza Duomo si contano tre negozi, chi ha potuto si è trasferito lungo le strade di grande passaggio ai piedi della città storica. Gli altri hanno dovuto mollare, schiacciati dai centri commerciali lontani dal centro. Daniele, 28 anni, dice che tutto questo manca e non ritornerà. Ma lui non è scappato. E anzi ha scelto di aprire un locale, proprio nel centro storico,«Lo Zio» che ha appena compiuto un anno. «Non sarei mai andato via anche se qui non c’è più niente, però per questo c’è tanto da fare, tutto. L’Aquila è una città difficilissima, ma se la ami non la puoi lasciare». Di Daniele non ce ne sono molti. Ma intanto qualche piccola vetrina illuminata si scopre, tra un ponteggio e una rovina. Oggi la vita aquilana gira intorno alla città’, sugli stradoni ai piedi del centro storico, lungo le strade verso la periferia. Le auto ingolfano il traffico in cerchi concentrici e fanno chilometri e chilometri da una parte all’altra dell’Aquila senza attraversarla mai. Francesco Nurzia però da piazza Duomo non si è mai spostato: il suo storico bar della famiglia produttrice di torroni ha riaperto pochissimo tempo dopo il terremoto. È ancora lì, in mezzo a decine di serrande chiuse. Coraggioso resiste, «non so per quanto, perché poi leggi i giornali e ti crollano le braccia». I pochi che entrano nel locale nel tardo pomeriggio scrollano la testa, «questa città non si rialzerà più».
Il Corriere della Sera 17.01.14