Difficile distinguere tra vincitori e vinti in una vicenda complessa come quella del Teatro San Carlo di Napoli, con il sindaco della città (presidente della Fondazione che lo gestisce) che insiste nella proposta di mettere in ordine i conti puntando sulle risorse interne e, sul fronte opposto, il ministero dei Beni culturali che richiama la fondazione al rispetto della legge «Valore cultura».
Comunque lo si voglia giudicare, il caso di Napoli è emblematico della frattura creata, nel mondo della lirica italiana, dalle regole introdotte con la legge Bray, approvata lo scorso ottobre per sanare la disastrosa situazione economica delle fondazioni liriche. Il ministero ha previsto, per il 2014, un fondo a rotazione di 75 milioni, per la concessione di finanziamenti di durata massima trentennale, oltre a un altro fondo di 25 milioni. Il tutto però, a condizione che gli enti presentassero dei «credibili» piani industriali di ristrutturazione.
La definizione di questi piani ha scatenato l’inferno nei teatri, sollevando in particolare le proteste dei sindacati, preoccupati per possibili tagli o ridefinizioni delle condizioni lavorative ed esasperando conflitti (talora anche di natura politica) già in essere. Lo scenario non è dei più confortanti: tre delle 14 fondazioni liriche italiane sono attualmente commissariate (Bari, Firenze e Palermo) e due sono fortemente a rischio – lo stesso San Carlo e il Lirico di Cagliari, dove proprio oggi è previsto il cda per esaminare le candidature alla sovintendenza, dopo l’addio di Marcella Crivellenti, la cui nomina era stata giudicata non valida dal Tar, lo scorso novembre.
Ma le note più dolorose riguardano la situazione economica, con un indebitamento lordo che, complessivamente ammonta a circa 340 milioni di euro (l’indebitamento netto è di 100 milioni). Non mancano le situazioni virtuose di realtà (come l’Accademia Santa Cecilia di Roma o la Scala di Milano, ma anche Venezia e Torino) che riescono a far quadrare i conti, magari ricorrendo a risorse private. In base alla legge Bray, i soggetti che nel triennio 2011-2013 hanno raggiunto il pareggio di bilancio avranno in dote una quota aggiuntiva (del 5%) sul Fondo unico dello spettacolo, che per il 2014 ammonta a circa 410 milioni di euro (per tutti i settori) e che da quest’anno sarà assegnato ai beneficiari non più «a pioggia», ma in base ai risultati raggiunti.
Una logica premiante che finora in Italia è mancata. Aveva quest’ambizione il processo di privatizzazione avviato a metà degli anni 90, che ha trasformato gli enti lirici in fondazioni, ma che dopo quasi vent’anni sembra sostanzialmente fallito (salvo i casi di Scala e Santa Cecilia). A incidere sui bilanci è soprattutto la spesa per il personale, che assorbe mediamente il 70% delle risorse. Una situazione insostenibile, che va risolta razionalizzando la forza lavoro. Il che non significa soltanto ridurre il personale (attraverso pensionamenti, ricollocamenti, esternalizzazioni…), ma anche aumentare la produttività e gli introiti. In questa direzione dovrebbero muoversi i piani di rilancio presentati il 9 gennaio al commissario straordinario Pier Francesco Pinelli, scelto dal Governo per risanare il sistema delle fondazioni. È il caso del Maggio Fiorentino, che un anno fa era a rischio liquidazione, mentre oggi cerca il rilancio con un piano che prevede risparmi per 4 milioni sul lavoro. O del Carlo Felice di Genova, che punta a razionalizzare il costo del lavoro senza ricorrere a licenziamenti.
Sul tavolo del commissario sono arrivati i fascicoli di sette fondazioni: le tre attualmente commissariate, Trieste (commissariata nei due esercizi precedenti, come Napoli), ma anche Genova, Bologna e Opera di Roma, che hanno aderito autonomamente alla possibilità di accedere ai finanziamenti. Ora spetta a Pinelli valutarne la singola efficacia e agire con rapidità. Per sanare una situazione così disastrata occorre però muoversi in una logica di sistema e sinergia: i teatri lirici italiani sono tanti, forse troppi rispetto al pubblico potenziale. Ma se siamo convinti – e lo siamo – che il loro numero e la loro storia siano una ricchezza per il Paese, è necessario che producano «meglio» e spendendo meno, avviando co-produzioni e collaborazioni.
Il Sole 24 Ore 17.01.15