La storia di Vera Vigevani Jarach, ebrea italiana che fuggì in Argentina dopo le leggi razziali, attraversa il Novecento: il nonno morì ad Auschwitz; la figlia Franca, 18 anni, fu sequestrata e gettata in mare da un aereo della morte del dittatore argentino Videla. Vera aveva un desiderio: «Un viaggio nella memoria».
Lager e torture, il viaggio di Vera nel buio La storia di un’ebrea italiana: nonno ad Auschwitz, figlia desaparecida in Argentina Vera Vigevani Jarach, ebrea italiana che vive in Argentina, aveva un desiderio. Il «Corriere della Sera» l’ha aiutata a realizzarlo. Questa donna di ottantacinque anni, giornalista per quattro decenni all’ufficio dell’«Ansa » di Buenos Aires, ha attraversato, nel Novecento, due tragedie che l’hanno segnata per sempre: ha perso il nonno materno, Ettore Felice Camerino, mandato al gas ad Auschwitz dagli aguzzini nazisti; e ha perso la figlia Franca, di diciotto anni, sequestrata, torturata e gettata in mare (viva) da un aereo della morte del dittatore Videla. «Non ho tombe sulle quali piangere. Mio nonno è diventato il fumo di un camino, mia figlia riposa in fondo al mare», racconta Vera, che si definisce «militante della memoria».
In visita l’anno scorso al Binario 21 della stazione Centrale di Milano, da cui partivano i treni dei deportati ebrei, diretti ai campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau, Vera racconta di aver avuto uno «schianto». Una folgorazione diventata il desiderio imperativo di «fare un viaggio nella mia memoria».
La proposta è arrivata al «Corriere» attraverso il cugino di Vera, Marco Vigevani. Il direttore Ferruccio de Bortoli l’ha accolta e ci ha incaricato di realizzarla. Ci siamo così messi in viaggio con Vera. E la sua storia è il nostro tributo a quella che non è soltanto una «giornata» ma è ormai diventata «la settimana della memoria».
L’idea è stata di realizzare il lavoro in due tempi, coinvolgendo l’intero sistema del «Corriere della Sera». Dal 20 gennaio il nostro sito Corriere.it trasmetterà la web serie in sei puntate Il rumore della memoria. Il viaggio di Vera dalla Shoah ai desaparecidos . Il giornale di carta accompagnerà ogni puntata con storie e approfondimenti raccolti nel percorso con Vera.
I contenuti, sia scritti sia multimediali, saranno disponibili sulle nostre piattaforme per tablet e smartphone e si apriranno alla condivisione e al dialogo con i lettori attraverso gli account del «Corriere» sui social network. Nelle prossime settimane, inoltre, sarà prodotto un film-documentario.
Per fare tutto questo avevamo bisogno di un grande regista. La scelta si è concentrata su Marco Bechis, che firma sia la web serie sia il film. Direttore di opere importanti come Garage Olimpo , che riguarda proprio le detenzioni clandestine volute dalla dittatura argentina, lui stesso desaparecido negli anni Settanta, arrestato, torturato, e fortunatamente liberato, Bechis era la persona più adatta a entrare fino in fondo nel mondo di Vera.
Come autori del progetto, insieme allo stesso Bechis e a Caterina Giargia, abbiamo scelto di seguire linearmente il viaggio di Vera. Abbiamo iniziato incontrandola nella sua casa di Buenos Aires e raccontando le vicende e lo stato d’animo di una madre cui hanno sottratto e ucciso l’unica figlia.
Con lei siamo entrati nella Esma, la scuola ufficiali della Marina militare, nel sotterraneo e nella mansarda usati come luoghi di prigionia e di tortura. Ai tempi della giunta, uno dei principali responsabili dell’operazione desaparecidos era l’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, direttore della Esma ed iscritto dal 1976 alla loggia massonica P2 di Licio Gelli (tessera numero 1755). Siamo stati al Parco della memoria di Buenos Aires, tra i banchi di scuola di Franca, nella cabina telefonica (poi trasformata dai militari in un improbabile bagno) usata dalla figlia di Vera, e dagli altri prigionieri, per chiamare i genitori e rassicurarli. Ovviamente sotto la pressione dei militari.
Dall’Argentina siamo poi tornati con Vera in Italia, in primo luogo a Milano, dove la donna visse da bambina sperimentando la persecuzione antiebraica e da dove suo nonno fu deportato ad Auschwitz.
Abbiamo visitato la scuola elementare «Morosini», dalla quale nel 1938 Vera fu espulsa. Le leggi razziali, promulgate dal governo di Mussolini, per compiacere i nazisti di Adolf Hitler, privavano infatti i genitori del lavoro e i figli del diritto all’istruzione. Ma l’Italia non fu un blocco granitico, e non lontano dalla «Morosini», in via della Spiga, nel cuore di Milano, vi era (e vi è ancora) un’altra scuola dove nel ‘38 lavorava il professor Bronzino. Docente che andava a scuola in orbace e con la camicia nera, ma che rifiutava l’idea che vi fossero bambini privati della possibilità di studiare. Contribuì quindi ad aprire la scuola, al pomeriggio, per i bambini ebrei, con insegnanti israeliti. Vera ha incontrato gli alunni di oggi sia nell’istituto da cui fu espulsa sia in quello dove fu accolta.
A questo punto, la testimone si è concentrata su quanto accadde al nonno, appunto Ettore Felice Camerino. Mentre tutta la famiglia aveva deciso di partire da Genova per Buenos Aires, all’inizio del 1939, il nonno, che all’epoca aveva 68 anni, si era rifiutato. Per due ragioni: aveva un negozio di mobili antichi e si riteneva troppo anziano per rifarsi una vita; era assolutamente convinto che, in Italia, agli ebrei non sarebbe successo nulla di irreparabile. Invece, alla fine del ‘43, dopo l’8 settembre, la situazione divenne drammatica. Il nonno cercò di fuggire in Svizzera. Insieme con lo storico della Resistenza Franco Giannantoni, abbiamo accompagnato Vera nel punto dove Camerino tentò di attraversare il confine, attivando però i campanelli della rete che separava i due Paesi. Arrestato dalla Guardia di finanza, fu consegnato ai nazisti, rinchiuso nel carcere di Varese, poi a Milano a San Vittore.
Il 30 gennaio 1944, dal Binario 21, fu scaraventato in un vagone del convoglio numero 6, sul quale si trovava — poco più che bambina — anche Liliana Segre. Arrivarono entrambi ad Auschwitz il 6 febbraio: Camerino fu mandato subito «al gas», la Segre è sopravvissuta ed è diventata una testimone. È stata lei ad accompagnare Vera a visitare il Memoriale della Shoah sorto al Binario 21, dove, in grande, è stata impressa sulla pietra la parola «Indifferenza». L’indifferenza che ha accompagnato le sofferenze dei deportati. A San Vittore erano stati salutati con affetto dagli altri prigionieri ma per le strade di Milano, molti tra coloro che sapevano si girarono dall’altra pare.
Il viaggio ha fatto tappa alla risiera di San Sabba a Trieste. Poi abbiamo trascorso con Vera, cui non mancano coraggio e determinazione, due giorni nei campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau.
«Continuo a chiedermi come sia stato possibile. — riflette lei ad alta voce —. Non mi vengano a dire che i nazisti erano pazzi. No, non erano pazzi, ma lucidissimi nella loro ferocia. Voglio incontrare i ragazzi dappertutto. Mi sento viva, mi sento appunto una militante della memoria».
Corriere della Sera 16.01.14