Le «cure compassionevoli» sono quelle che possono intervenire quando ci ò che è normalmente autorizzato e praticato, è ormai inutile. Si chiamano cure compassionevoli. Compassionevoli, ma pur sempre cure. E cure, che si vogliono somministrate in strutture del Servizio sanitario nazionale.
Il caso Stamina ha aspetti che giustificano gravi sospetti. Esistono però problemi che sono presenti nell’attività ordinaria di medici e di strutture ospedaliere, che non emergono nei media e che tuttavia mettono a dura prova le regole routinarie, il senso di responsabilità dei medici, il dolore dei malati e di chi sta loro vicino. La patologia di una vicenda, intendo dire, non deve mettere in ombra l’esistenza di una normalità di casi difficili.
Una normalità in cui l’integrità dei protagonisti è fuori discussione e le decisioni da prendere sono ardue e rischiose.
Le deviazioni deontologiche, ipotizzabili in questa o quella vicenda particolare, consentono analisi semplici e chiedono rimedi noti. Sono più difficili i problemi di cui non ci si può liberare identificando colpevoli. La domanda di «cure compassionevoli» è uno di questi. Le regole ordinarie sono impraticabili e quelle eccezionali, che pur esistono, lasciano largo spazio a scelte discrezionali difficili, rischiose; scelte discutibili a priori e discusse a posteriori, quando l’esito sia negativo.
Le cure compassionevoli sono praticate e regolamentate in Italia come altrove nel mondo. Ed anche l’Unione Europea con i suoi organi vigila e promuove l’armonizzazione delle regole. Si tratta di regole che riguardano i medici e gli ospedali. Dopo l’opera dei medici, talora sono chiamati a decidere i giudici e il loro ruolo è controverso.
Con l’espressione «cure compassionevoli» si intende l’uso di farmaci «off-label», non (ancora) autorizzati o non autorizzati per quello specifico uso: farmaci cui ricorre il medico, in assenza di terapie autorizzate, con il consenso del paziente. Naturalmente ciascuno e libero di curarsi come vuole, ma il problema nasce quando si pretende che sia una struttura pubblica, lo Stato dunque, a praticare una terapia non autorizzata in situazioni normali. Il problema non si presenta solo in Italia. Recentemente la Corte europea dei diritti umani ha esaminato un ricorso contro la Bulgaria, le cui autorità amministrative e i cui giudici avevano rifiutato di autorizzare la somministrazione a malati terminali di cancro di un farmaco non registrato in quello Stato. La Corte ha affermato che il diritto alla salute non implica un dovere assoluto dello Stato di agire, anche in violazione delle regole che si è dato in materia di sicurezza sanitaria. E in effetti una cosa è il diritto a non essere oggetto di attentati alla propria salute, altro è la pretesa che non vi siano limiti al dovere dello Stato di provvedere. Ed anche la Corte Costituzionale ha ritenuto che il diritto alla salute, pur fondamentale, trova limiti in considerazione di altri diritti e principi costituzionali.
Le regole italiane ammettono l’uso dei farmaci riconosciuti per le cure compassionevoli dalla Commissione unica del farmaco del ministero della Salute, in considerazione del fatto che sono stati già registrati in altri Stati o sono in corso di sperimentazione per quella patologia. L’uso di tali farmaci è ammesso a condizione che la procedura di sperimentazione sia già in stadio avanzato o esistano pubblicazioni scientifiche, accreditate in campo internazionale, da cui se ne possa desumere l’affidabilità. E il ricorso a tale tipo di terapia deve essere eccezionale e legato alla specificità della concreta situazione del paziente. Il pericolo è infatti che una applicazione generalizzata diventi una via per sottrarsi alle rigide regole della sperimentazione clinica dei nuovi farmaci. Solo in tal modo si può ritenere che il medico, conformemente al giuramento prestato, abbia agito secondo «scienza e coscienza».
Come si vede, ad ogni passo il medico deve compiere valutazioni impegnative, in cui il confine tra il giusto e lo sbagliato è discutibile e l’errore sempre possibile. Esistono casi in cui l’adozione da parte del medico di una terapia non autorizzata ha portato quel medico davanti al giudice penale, imputato per avere cagionato l’aggravamento o la morte del paziente. Ma – ed ecco il problema esploso ora nella vicenda Stamina – al giudice si richiede anche di prender decisioni quando la cura non è praticata, ma impedita. A chi, se non a un giudice, può il paziente richiedere che sia garantito il suo diritto alla salute? Che si tratti di un diritto è fuori discussione, donde la competenza del giudice. Ciò che invece è discutibile sono i limiti e le condizioni per l’applicazione al paziente delle regole esistenti. Ecco allora che le incertezze, le valutazioni, i rischi entro i quali si muove il medico, si trasferiscono al giudice. E la similitudine delle posizioni del medico e del giudice si vede anche nel fatto che l’uno e l’altro non possono evitare di prendere una decisione; con la differenza però che quella del giudice è l’ultima, definitiva. Il giudice, in più deve ricorrere alla perizia di un esperto, poiché egli tutto ignora della specifica disciplina medica. In molti casi i veri esperti sono pochissimi e difficilmente raggiungibili. E le valutazioni di un perito sono spesso smentite dal giudizio di altri. Donde decisioni difformi e lo scandalo di cure ordinate e di cure negate da giudici diversi in casi che sembrano eguali. Come quello di due fratelli affetti dallo stesso male, per l’uno dei quali un giudice ordinò la cura e per l’altro un altro giudice la negò.
La Stampa 12.01.13
Da tutto ciò potrebbe trarsi la conclusione che in un campo così difficile, tutto quello che è avvenuto non è che il prodotto inevitabile della difficile natura del problema. E rassegnarsi a dire che si sia nel migliore – ancorché penoso – mondo possibile. Non è così. Si poteva far meglio. In questa vicenda il governo nel corso del tempo ha dato segnali contraddittori, equivoci, come quando ha vietato le cure Stamina, ma ha autorizzato la continuazione di quelle già in corso. Il parlamento – lo ha ammesso la presidente della Commissione sanità del Senato – ha legiferato senza le conoscenze necessarie. E per far chiarezza si è dovuto attendere – come è ormai abitudine – che si attivasse un’indagine penale. E i giudici? I giudici, con decisioni molto argomentate e palesemente meditate, hanno dato risposte in contrasto l’una con l’altra. La funzione della giustizia è di decidere i casi singoli, ma è anche quella di assicurare stabilità e prevedibilità del diritto che i giudici enunciano. Il sistema giudiziario nel suo complesso non ha dato buona prova. La cattiva prova anzi è venuta dall’insieme del sistema istituzionale. Conclusioni di organi scientificamente attrezzati, cui la legge rimette valutazioni altamente tecniche, dovrebbero essere rispettate, anche dai giudici. La ricerca, per distaccarsene, di possibili vizi formali dei provvedimenti amministrativi rischia di condurre a distorsioni dei ruoli reciproci; a scapito dell’osservanza delle regole stabilite, sulla serietà della «cura» prevale l’umana «compassione». Ma è questa la funzione dei giudici? Il conflitto con la comunità scientifica accreditata, non mette in discussione la credibilità di uno Stato di cui anche l’istituzione giudiziaria è parte?