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"Il piacere dal barbiere", di Francesco Guccini

Erano aperti anche la domenica mattina, i barbieri, per quelli che si azzimavano in vista delle imprese pomeridiane, andare a ballare, portare la morosa al cine, fare bella figura al bar con gli amici aspettando l’ora delle partite. Stavano poi chiusi il lunedì, come oggi, ma non aprono più la domenica mattina. Non ci sono più clienti domenicali?
Oggi molti barbieri si sono trasformati in parrucchieri, per uomo e per donna; il salone è unisex, si dice. Tu entri e, se non sei cliente abituale, uno di casa, ti muovi imbarazzato fra signore che, mentre rifanno la tintura (accompagnate dalle frasi da piccolo chimico delle inservienti), si fanno acconciare, applicare le “extension” o altre diavolerie, ti guardano con sospetto come se tu fossi capitato, volgare intruso, in un proibito gineceo. Tu stesso, una volta preso posto, devi stare molto attento, perché in quei locali il parrucchiere non si accontenterà di un normale shampoo o di un banale taglio («Mi raccomando, solo una spuntatina!»), ma vorrà farti provare il “peeling” col nuovo magico prodotto («Rivitalizza il cuoio capelluto!»), o la lozione che ridà lucentezza («Vede come sono opachi i suoi capelli?») e rinvigorisce il bulbo. Sul taglio, poi, non devi rilassarti un secondo («Ma cosa taglia?», «Non si preoccupi, solo una sfoltitina», «Sfoltitina un cavolo, mi sta pelando!») per non correre il rischio di ritrovarti coi capelli alla mohicana o ritti sulla testa con ciuffetti intrisi di gel più o meno profumato. Quando poi, con faccia improntata a profondo disgusto, l’«hair stylist» osa la domanda: «Scusi, non dovrei dirlo, ma chi è che le ha tagliato i capelli prima?», rispondo come rispondo all’idraulico o all’elettricista capitati per caso la prima volta in casa mia. Se chiedono, scuotendo mestamente il capo: «Scusi sa, non dovrei dirlo, ma chi è che le ha fatto questo impianto?», io rispondo sempre: «Un pastore sardo. Appena ho un rubinetto che perde o un cortocircuito io chiamo sempre un pastore sardo a metterci una mano».
So benissimo che esistono anche oggi barbieri normali, come quelli di un tempo. Bisogna forse cercarli in periferia, o nei piccoli paesi, ma ci sono, pure se nessuno usa più la gloriosa macchinetta per tosarti. Perché una volta, quando si andava dal barbiere, lo scopo era farsi tosare, in modo che tutti potessero dire: «Ve’, sei andato dal barbiere, oggi?».
Ci sono. Solo l’atmosfera e l’arredamento sono un po’ diversi. Già le sedie. Adesso, se il barbiere tiene alla modernità del suo negozio, ha certe sedie che sembrano quelle – tragiche, da un certo punto di vista – che trovi dal dentista, plastica ceramica e acciaio, e la cosa non ti lascia tranquillo. Le sedie di un tempo erano più casalinghe, più familiari, di legno, con qualche ghirigoro liberty, qualche imbottitura ai braccioli, l’appoggiatesta in pelle, reclinabili e girevoli. Le puoi scovare ancora, dopo essere state svendute dal barbiere in vena di modernità e recuperate da un astuto antiquario, nello studio di un artista alla moda o nell’atelier di un famoso architetto.
È cambiata anche la stampa offerta dal negozio. Nei saloni unisex, oltre al quotidiano locale, sono a disposizione tutte le riviste di gossip esistenti sul piano nazionale, quelle riviste che faranno esclamare a una signora informatissima sul figlio segreto dell’ultima divetta o sul divorzio della coppia famosa: «Come lo so? L’ho letto dal parrucchiere», mentendo per la gola sul fatto che ne è una ghiotta divoratrice a casa, perché nessuna donna ammetterà mai di averle golosamente comperate.
Dal barbiere normale, invece, una volta si trovava pure il quotidiano sportivo, perché il salone era spesso luogo di maschi sfaccendati, o che aspettavano il proprio turno; infatti non si prendevano appuntamenti come dal dentista (celebre la frase: «Arrivo subito da lei, solo cinque minuti!». I famosi cinque minuti da barbiere), e anche era un posto come un altro per oziare, discutere di calcio, di politica, di donne. A questo proposito alcuni tenevano delle riviste osé, tirate fuori solo a richiesta del cliente, perché ogni tanto poteva entrare un bambino con relativa madre.
Oggi nessun figaro fa più la barba; mi hanno detto che non vale la pena per il tempo che si deve usare e il prezzo che si può esigere. Ma ci sono ancora barbieri che sanno radere una barba? Personalmente, per ragioni di onor del mento, la cosa non mi tocca, ma era bello vedere tutte le complesse operazioni che precedevano la rasatura.
Lo sbarbando si accomodava sulla sedia e appoggiava mollemente il capo sull’appoggiatesta, offrendo viso e soprattutto gola con la stoica sicurezza che avrebbe esibito un imperatore romano esposto al rischio dello sgolamento da parte di uno schiavo impazzito o partecipante a un complotto. Nei saloni più raffinati sul volto del, diciamo così, paziente, veniva applicato un pannicello tiepido e umido, che serviva a dilatare i pori, chiamando in superficie anche i peli più nascosti e restii. A parte si preparava l’acqua per la saponata, scaldata sulla stufa, in inverno, o sul fornelletto a resistenza elettrica, in estate. Si procedeva quindi all’insaponatura. Il pennello veniva tuffato nell’acqua e con esso si vellicava uno stick, oppure lo si immergeva in una scatola metallica contenente una misteriosa miscela galenica e traslucida di saponi. La schiuma così ottenuta passava e ripassava sul viso del cliente per rendere quella pelle, a volte rugosa e impervia come un sentiero di campagna, più morbida ed elastica di quella di un bambino o di una giovinetta impubere. Il barbiere allora, con gesto sapiente e ieratico, da chirurgo, afferrava il rasoio a mano libera e ne rifaceva il filo passandolo e ripassandolo con elegante energia sulla correggia di cuoio appesa al muro o addirittura sul palmo della mano. La schiuma levata dal viso e intrisa di peluzzi di barba veniva poi depositata con grazia su quadratini di carta di giornale approntati all’uopo o su schedine vecchie della Sisal. A richiesta si procedeva al contropelo. Finita l’operazione, dopo aver cauterizzato un’eventuale piccola ferita con l’allume di rocca, si irrorava il viso dello sbarbato con una profumata soluzione alcolica conservata in una preziosa ampolla e spruzzata con una pompetta, spesso terminante con un vezzoso fiocco.
Per Natale i barbieri regalavano un oggetto di grande importanza, un calendarietto, oggi ricercato dai collezionisti. Detto così, calendarietto, sembra roba da poco. Ma solo per chi non lo ha visto mai, perché era un cimelio quanto mai prezioso.
Anzitutto, avvolto in una carta semitrasparente, veniva alluvionato da un profumo di incerta e inquietante provenienza (Notti d’Oriente? Fascino slavo?) e di straordinaria e testarda persistenza, tale da dare contezza di sé anche secoli dopo. Messo nel portafoglio da rudi mediatori di bestiame, olezzava non solo nel portafoglio stesso, ma nei vestimenti tutti e nella persona dell’individuo, che profumava fino al Natale successivo come una ballerina d’avanspettacolo di quart’ordine.
I calendarietti erano colmi di immagini le più varie: scene di opere liriche, di film famosi, ritratti di attrici, ma i più portavano disegni o foto di ragazze discinte, discinte come si può pensare a una ragazza discinta negli anni Cinquanta, oggi quindi ragionevolmente casta come appena uscita da un collegio delle Orsoline. Ma pare che, proprio per questa ragione – la fama osé per quei tempi –, si gridò allo scandalo e i calendarietti furono aboliti. Io però credo invece che siano scomparsi per quella ventata di assurdo modernismo che ha colpito l’Italia alla fine di quegli anni, e quei piccoli calendari, profumati, protetti dal cellophane, spesso anche cosparsi di porporina dorata che si attaccava dappertutto, furono ritenuti cosa vile, di un passato da dimenticare.
Però, il prossimo Natale, mi piacerebbe riceverne ancora uno e, alzandomi dalla poltrona, sentire il barbiere che dice: «Il signore è servito. Ragazzo, spazzola» e vedere il cinno che premuroso si avvicina, ti spazzola e attende, fiducioso, una lauta mancia.

Il Sole 24 Ore 11.01.14

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