Norberto Bobbio se ne è andato in silenzio, con discrezione, come era nel suo stile, il 9 gennaio del 2004. Che fosse anziano e di salute cagionevole era noto. Forse meno conosciuta, se non alle persone intime, era la stanchezza che da alcuni anni lo aveva assalito, evoluzione di un’indole incline alla malinconia. Lo stesso Bobbio ne aveva parlato con la consueta lucidità a un corrispondente alcuni anni prima: «la mia vita ormai è vissuta al rallentatore. Lente nei movimenti le gambe e le mani. Lenti tutti i movimenti del corpo. Deboli gli occhi e quindi lenta la lettura. Faticoso anche il solo alzarmi per prendere un libro. Sempre più rapido invece questo processo di indebolimento. Da qualche tempo provo in maniera sempre più penosa la fatica di vivere, che, del resto, conosco, in forma leggera, naturalmente, sin dall’infanzia. Non viaggio più». Non che viaggiare fosse una passione per Bobbio. Scherzando, si descriveva come un provinciale. Bogianen, come si dice nella sua Torino. Uno che sta nel suo buco, che non si muove. Certo un buco confortevole, nel centro di quella che un concittadino della stessa generazione paragonava a una guarnigione, ma che mostrava ancora il suo volto di piccola capitale di un regno subalpino preservando con caparbietà e orgoglio la dignità che altre ex capitali della penisola faticavano a difendere. Pochi passi separavano via Sacchi, dove Bobbio abitava, dalla Facoltà di Scienze Politiche, dove si era trasferito lasciando l’insegnamento di filosofia del diritto per prendere quello di filosofia politica. Ma in mezzo c’era un mondo. Quello delle idee e dei pensatori che lo avevano accompagnato per anni: Locke, Hobbes, Kant, Hegel, Marx, Cattaneo, Kelsen, Weber e tanti altri, noti e meno noti, cui Bobbio si dedicava con pazienza e rigore, sezionandone le opere per esibirne l’anatomia a generazioni di studenti. Quello dei tanti corrispondenti, da Hart a Oppenheim fino a Scarpelli, con cui tesseva un fitto dialogo epistolare. In molti, tra chi ne frequentava le lezioni, sono diventati a loro volta professori. Non solo nelle “sue” materie, ma in tante altre. Perché quella di Bobbio era una “scuola” nell’unico senso rispettabile che questa espressione può avere quando si usa a proposito dell’accademia: un posto dove si impara. Si apprende come si ragiona, che bisogna aver rispetto dei fatti, della verità e degli interlocutori.
Sotto questo profilo Bobbio era un esempio. Nel 1996, lo stesso anno in cui scrisse la lettera a Danilo Zolo da cui ho ripreso la descrizione della sua «fatica di vivere», lo studioso torinese era al lavoro su un libro – fortemente voluto da Carmine Donzelli, che alcuni anni prima di Bobbio aveva pubblicato il fortunatissimo Destra e sinistra (1994) – che raccoglieva alcuni suoi scritti del periodo immediatamente seguente alla fine della seconda guerra mondiale, accompagnati da un commento retrospettivo dell’autore. Ritornando agli anni del fascismo, Bobbio scriveva: «non è difficile ricostruire lo stato d’animo di chi, come me e tutti gli appartenenti alla mia generazione, era arrivato agli anni della maturità senza aver mai votato, e avendo cercato, se mai, di sottrarsi a quelle forme di partecipazione forzata che erano le adunate e le altre messe in scena che non riuscivamo più a prendere sul serio».
In effetti, colpisce, in questi scritti del dopoguerra l’insistenza sull’eccesso di politica che molti vedevano nell’esperienza recente del regime fascista, cui c’era chi reagiva rivendicando l’apoliticismo come valore e la separazione tra tecnica e politica. Una chimera che, nel 1945, Bobbio liquidava con parole che oggi appaiono profetiche: «tecnica apolitica vuol dire in fin dei conti tecnica pronta a servire qualsiasi padrone, purché questi lasci lavorare e, s’intende, assicuri al lavoro più o meno onesti compensi; tecnica apolitica vuol dire soprattutto che la tecnica è forza bruta, strumento, e come tale si piega al volere e agli interessi del primo che vi ponga le mani. Chi si rifugia, come in un asilo di purità, nel proprio lavoro, pretende di essere riuscito a liberarsi dalla politica, e invece tutto quello che fa in questo senso altro non è che un tirocinio alla politica che gli altri gli imporranno, e quindi alla fine fa della cattiva politica». Dietro l’illusione della tecnica apolitica, Bobbio vedeva all’opera il politico incompetente che non è in condizione di prendere buone decisioni perché è privo delle conoscenze necessarie. Non ha idea di come procurarsele, e non se ne cura perché è soltanto un politicante. Un tema, come si vede, di schiacciante attualità nel dibattito in corso sulla riforma del parlamento. Proprio al compito di rendere la politica consapevole dell’importanza della conoscenza accurata dei fatti e del rigore nell’argomentazione Bobbio avrebbe dedicato una parte consistente delle sue energie nei decenni del dopoguerra, fino alla crisi della prima repubblica. Così, ad esempio, scriveva nei primi anni cinquanta, in polemica con i comunisti che proponevano una “politica culturale”, difendendo una “politica della cultura” che fosse: «oltre che la difesa della libertà, anche la difesa della verità. Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è neppure cultura senza spirito di verità. (…) Le più comuni offese alla verità consistono nelle falsificazioni di fatti o nelle storture di ragionamenti». C’è da chiedersi quanto, dello scoramento che Bobbio confessava alla fine degli anni novanta, fosse dovuto alla sensazione di aver combattuto questa battaglia invano.
Del rispetto per i fatti e per la verità, Bobbio è stato un esempio anche se lo riguardavano, dolorosamente, da vicino. Fu così, quando, nel 1992, emerse una lettera in cui si rivolgeva direttamente a Mussolini per evitare le conseguenze cui sarebbe probabilmente andato incontro per via delle sue frequentazioni nell’ambiente dell’antifascismo torinese. Bobbio non fece nulla per sottrarsi alle critiche virulente di cui fu oggetto: «non voglio aver l’aria di mendicare giustificazioni. Ci sono pur stati coloro che non hanno fatto compromessi». Vale la pena di notare che nessuno, tra quelli che compromessi non fecero – nemmeno tra gli avversari comunisti – si unì al coro delle critiche. Forse perché l’esperienza diretta di una dittatura affina la sensibilità delle persone, e le spinge a diffidare dei moralisti che rifiutano di vedere le sfumature.
Il Sole 24 Ore 12.01.14