Come ci ha spiegato Dale Mortensen, Nobel per l’economia scomparso ieri dopo una malattia che ce lo ha portato via in pochi mesi, i posti di lavoro, i
jobs, vengono creati dalle imprese ma non vengono
riempiti immediatamente. Ci vuole del tempo per l’incontro fra domanda e offerta e più segmentato è il mercato, più lungo il tempo che passerà prima che il posto di lavoro vacante si traduca in impiego effettivo, dando un lavoro a chi lo cerca. Questo aumenta la disoccupazione e ne allunga la durata. L’incontro fra lavoratore e impresa può migliorare nei benefici che arreca ad entrambi, ma può anche peggiorare nel corso del tempo, spingendo l’uno o l’altra a porre fine al rapporto di lavoro. Quando questa separazione avviene, ci sono costi sociali che vanno al di là di quelli sostenuti dal datore di lavoro e dal lavoratore. Bisogna pagare un sussidio di disoccupazione a chi è stato licenziato e questa persona si troverà a competere con altri disoccupati nella ricerca di un impiego. Meglio perciò non porre limiti a priori alla durata di un rapporto di lavoro, meglio non avere troppi contratti temporanei. Creano congestione in entrata e impediscono di investire nel migliorare la produttività del lavoro.
Il Jobs Act di Matteo Renzi è, per il momento, solo un elenco di titoli. Sono quelli giusti. Il piano mette al centro la domanda di lavoro e oggi è proprio da quel lato del mercato che risiede il problema: troppe persone in cerca di lavoro, pochi posti vacanti. Coerentemente con questa impostazione che vuole incoraggiare le imprese a creare opportunità di impiego, si propone di concentrare le risorse disponibili in un taglio non simbolico delle tasse sul lavoro e di ridurre i costi di creazione di nuove imprese, ad esempio abolendo l’obbligo (e ancor più gli oneri) di iscrizione alle Camere di Commercio. Si vuole ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, riducendo il numero e la complessità delle tipologie contrattuali, un approccio diametralmente opposto a quello seguito negli ultimi 20 anni da Treu, Maroni e Sacconi, che avevano moltiplicato le figure contrattuali, dando poi, dulcis in fundo, facoltà alle Regioni di intervenire con normative differenziate. Era un modo di creare impiego solo per i consulenti del lavoro. Ora si sceglie la strada della semplificazione. Si intende anche creare un
canale di ingresso nel mercato del lavoro che permetta di sperimentare la qualità dell’incontro fra impresa e lavoratore senza imporre a priori limiti di durata a questo rapporto di lavoro. Ci si propone di rendere questa l’entrata principale, quando oggi solo il 20 per cento delle assunzioni (il 10 per cento tra i più giovani) avvengono con contratti a tempo indeterminato. La segmentazione viene combattuta anche tra chi perde il lavoro, istituendo un sussidio di disoccupazione accessibile da parte di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa, dal settore o dal contratto.
Le premesse sono dunque quelle giuste. Perché se ne possa discutere in modo serio bisognerà al più presto affinarle, a partire dal chiarire quali coperture verranno trovate per le misure che in questo pacchetto non sono a costo zero. Bisognerà, in questo perfezionamento, avere cura dei dettagli senza perdere la visione d’insieme e senza venire distratti da improbabili piani industriali sui settori che dovrebbero creare lavoro. Dopotutto, come scritto nella bozza, «non sono i provvedimenti di legge che creano lavoro, ma gli imprenditori». Occorrerà fare in fretta per evitare che le premesse diventino promesse. Di queste ultime non si sente certo il bisogno. Gli annunci cui non seguono fatti concreti sono molto pericolosi nel mercato del lavoro. Le imprese, ad esempio, possono sospendere le assunzioni, aspettando che entrino in vigore le nuove regole, deprimendo ulteriormente un mercato del lavoro già in ginocchio. Le promesse creano, inoltre, aspettative soprattutto fra i giovani che continuano ad essere presi di mira in Italia, come ci dimostra anche il fatto che si intervenga per contenere i costi del pubblico impiego solo bloccando gli scatti, le carriere. Le loro speranze non devono venire disattese: di slogan e di contratti con gli italiani mai rispettati sono lastricate le vie di quella politica italiana che si vorrebbe cambiare.
Il difficile viene adesso. Ma comunque è già un sollievo che il confronto pubblico non sia solo su Ici, Imu, Tari, Tasi, Tares, Taser, Trise, Tuc e Iuc. È il momento di occuparsi del problema numero uno, quello del lavoro.
La Repubblica 10.01.14