Pacs, Dico, Didore e Cus. Ovvero la filastrocca dell’Italia che da trent’anni non riesce ad approvare una norma sulle unioni civili. L’Italia che ha buttato nel cestino almeno 44 proposte di legge senza nemmeno discuterle in Aula. Che è in ritardo su tutti, sugli altri Paesi dell’Unione europea, sulle sentenze della Corte di Cassazione che riconoscono le famiglie di fatto, sulle risoluzioni votate a Bruxelles. Sulla società, in una parola. E il putiferio che ha scatenato l’annuncio del segretario del Pd di voler
inserire nel patto di coalizione anche il ddl sul riconoscimento delle coppie di fatto etero e gay, già depositato al Senato dal renziano Marcucci, spiega bene quanto il dibattito politico sia tradizionalmente influenzato dal peso del Vaticano e da calcoli spiccioli di partito.
Raccontano le cronache parlamentari che si è sempre trovato un motivo, un cavillo, per non mettere all’ordine del giorno in Commissione giustizia le proposte di legge sulle unioni civili. Serviva, e serve, l’ok di un capogruppo di maggioranza o di opposizione. Al dunque, non se ne trovava mai uno. Ci riuscì Anna Finocchiaro nel 2005, con i Patti civili di solidarietà, i Pacs, una delle tante sigle che gli italiani hanno imparato a conoscere con la stessa velocità con cui poi se le sono dimenticate. «Il Vaticano fece partire una campagna contro i Pacs che io avevo presentato — ricorda Franco Grillini, ex deputato e presidente onorario dell’Arcigay — c’erano cardinali che telefonavano ai miei colleghi per convincerli a non votarli. Addirittura chiedevano le registrazioni dei lavori della Commissione».
I Pacs, che garantivano alle coppie di fatto (omo ed etero) diritti quali la reversibilità della pensione o il subentro nell’affitto, non sarebbero mai passati,
con Berlusconi e il centrodestra al governo: franarono con la legislatura, nell’aprile del 2006. In tempo però per vedere la Margherita di Rutelli, contraria a «forme simili» al matrimonio tra omosessuali, lanciare l’alternativa: i Css, contratti di convivenza solidale. Ebbero vita brevissima.
È il destino comune di tanti progetti legislativi in materia. Il primo risale al 1986 e porta la firma di una maestra di Castellammare di Stabia, Ersilia Salvato, senatrice del Pci. Proposta timida, la sua, si parlava di “generica convivenza”. Presidente del Consiglio era Craxi, il governo si reggeva, a stento, sul Pentapartito. Nemmeno fu presa in considerazione. Due anni dopo la deputata Alma Agata Cappiello portò alla Camera un testo sulle “famiglie di fatto”. La Chiesa si oppose, Giovanni Paolo II gli dedicò addirittura un Angelus e in Parlamento nessuno ebbe il coraggio di inserirla nell’ordine del giorno.
Intanto però il mondo andava avanti. Nel 1989 il governo della Danimarca, peraltro conservatore, introdusse la «partnership registrata » per i non sposati. Non dava la possibilità di adottare né di sottoporsi alla fecondazione assistita, ma era un enorme passo in avanti. Nel giro di un decennio Francia, Germania, Olanda, Belgio e Svezia seguirono l’esempio. La risposta italiana arrivò da Empoli nel 1993, quando il comune istituì il primo Registro delle unioni civili. Ne seguirono altri, con scarsa fortuna. Attualmente è adottato in 137 città, ma si sono iscritte appena 2mila coppie di fatto sulle 897mila presenti nel Paese.
In Parlamento, dal 1996 al 2001, non si è mosso niente. Quattordici proposte di legge sulle unioni civili nell’arco della legislatura, nessuna discussa. Una portava la firma del senatore Luigi Manconi, attuale presidente della Commissione diritti umani: «Sicuramente pesava l’influenza della Santa Sede, ma non solo — spiega — non ci siamo mossi nell’unica prospettiva che avrebbe fatto maturare il dibattito, cioè la pari dignità delle persone, a prescindere dal loro orientamento sessuale. È come se l’intera materia fosse stata trattata prevalentemente in un’ottica sindacalistico- economicistca: anche chi era favorevole finiva per sostenere che sarebbe bastato modificare alcuni articoli del codice civile per ottenere gli stessi scopi».
Nel 2006 c’è Romano Prodi al governo, i tempi sembrano maturi. Prima vengono ripresentati i Pacs, «ma Dario Franceschini — ricorda Grillini — non volle portarli alla Camera, dove la maggioranza era più forte, e non se ne fece nulla». I Pacs diventarono Dico nel consiglio dei ministri dell’8 febbraio 2007: “DIritti e doveri delle persone COnviventi”, un ddl scritto da Rosy Bindi e Barbara Pollastrini. Tra i diritti riconosciuti, anche alle coppie gay, l’assistenza in caso di malattia e l’ingresso nella successione legittima. «Non servono», disse l’allora presidente dei vescovi Angelo Bagnasco. Avvenire arrivò a evocare il “non possumus” di Pio IX. Ma anche nell’Ulivo l’ala teodem, Paola Binetti e Enzo Carrà, remavano contro. I DiCo morirono, e nemmeno la metamorfosi in Cus, ovvero Contratti di unione solidale proposta dal senatore Cesare Salvi, servì a resuscitarli.
E oggi? Tra Camera e Senato ballano ancora otto progetti di legge, tra i quali quello voluto da Renzi. Non si sa invece che fine abbiano fatto i Didore, DIritti e DOveri di REciprocità dei conviventi, lanciati nel 2009 dall’allora ministro Renato Brunetta. E affossati da Berlusconi, che proprio in quel periodo, per le famose cene eleganti, aveva qualche problema di credibilità con il Vaticano.
La Repubblica 05.01.14