Non paia un partito preso ingeneroso verso il governo. È solo semplice e cruda realtà. Il decreto legge presentato in Parlamento in agosto e convertito in legge il 15 ottobre 2013 non ha, per ora, sortito l’effetto di ridurre, o quanto meno di contenere, il femminicidio. Le fonti su cui si basa La Stampa ci dicono che siamo passati da 93 femminicidi nel 2012 a 103 nel 2013. La casa delle donne di Bologna, che usa lo stesso metodo di ricerca, basato sulle notizie di giornale e sui lanci di agenzia, dichiara invece 130 casi nel 2013. La differenza è dovuta alla definizione: «per femminicidio si intende un assassinio – precisa la Crusca – in cui l’uccisore è un uomo e il motivo per cui la donna è uccisa nasce dal fatto di essere donna». Così alcuni calcolano come «borderline» i casi legati a rapine o a follia dei figli, altri no. Il dibattito, non essendoci fonti pubbliche attendibili come nel caso dell’interruzione di gravidanza, è completamente aperto.
In teoria, dall’anno prossimo tutto cambia: stando alla legge, il ministero dell’Interno «elabora ogni anno un’analisi criminologica della violenza di genere» e la ministra della pari opportunità, entra il 30 giugno, relaziona sull’utilizzo delle risorse stanziate (modestissime: dai sette ai dieci milioni all’anno) per i centri anti violenza.
«Il più sicuro, ma il più difficile mezzo per prevenire i delitti é perfezionare l’educazione»: studiavamo così da ragazzi sui testi degli illuministi. Il mezzo, proprio perché è difficile, è passato di moda: non fa notizia, non infiamma, non produce consenso. Mentre una legge come questa, basata per i quattro quinti sul diritto penale, sull’esemplarità e sulla deterrenza, lì per lì fa rumore. Ma, se inefficace, facilmente finisce in quel coacervo di sfiducia che ormai separa cittadine e cittadini dallo Stato: «parlano, parlano … e non cambia mai nulla». La novità pratica – a parte l’inasprimento delle pene, compreso quello altamente simbolico verso il persecutore legato alla vittima da matrimonio o da rapporto affettivo – è una maggiore libertà ed efficienza di azione per gli agenti di polizia giudiziaria nell’allontanare dalla casa l’uomo violento, nel vietargli di avvicinarsi, nell’informare la vittima di dove si trova il maltrattante, se agli arresti, a piede libero o in un programma sociale di riabilitazione. Le operatrici dei centri anti violenza riconoscono volentieri i meriti di una polizia più sensibile. Con il tempo, speriamo, ne vedremo i frutti.
Intanto la distribuzione spaziale e temporale dei delitti fa riflettere. Pi ù Nord che Sud, più megalopoli (Milano e Napoli in particolare) che piccoli centri, meravigliosa quiete in Basilicata e nel Nord della Sardegna. E’ finito il tempo del clan, degli zii e dei fratelli che puniscono la reproba ( sono questi la maggior parte dei femminicidi in Afghanistan e Pakistan) ed è in crescita lo strazio postmoderno dell’amore-non amore, che non sa riconoscere i confini fra legami e libertà. Quel misterioso mese di settembre, quando i delitti aumentano, di cosa è il segno? Di separazioni mal sopportate, di nuovi inizi di lavoro e di cura, sempre più faticosi e frustranti mentre la crisi fa il suo giro?
Forse. Molto ancora c’è da capire e studiare se si pensa a una riforma sociale e morale. Spiace che anche papa Francesco, nell’impostare le 38 domande da discutere nelle parrocchie in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia del 2014, abbia pensato a tutto, dai divorziati alle coppie gay, ma non alla violenza sulle donne. Non è per delegare. E’ che la società civile laica è così stanca e rinsecchita che forse uno stimolo dalla comunità cristiana non le avrebbe fatto male.
La Stampa 03.01.14